Dagli archivi dell'Imperial War Museum.
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Collaborazioni
mercoledì 8 dicembre 2021
Alcune foto dall'area di Mignano, tratte dall'archivio dell'Imperial War Museum
martedì 7 dicembre 2021
78° Anniversario della Battaglia di Montelungo, 8 dicembre 1943, l'alba del Secondo Risorgimento Italiano
78° Anniversario della Battaglia di Montelungo
Per onorare e ricordare, ogni anno
Ricorre domani il settantottesimo
anniversario di quell’alba di sangue nella quale dei ragazzi, chiamati alle
armi nel periodo più buio della nostra storia; nel momento in cui tutto
sembrava perduto e la Patria smarrita; decisero che l’Italia ed il giuramento
fatto alla bandiera erano valori fondanti per ricominciare a credere in un
nuovo futuro di libertà e per i quali si poteva donare la propria vita.
Gli ideali che ci hanno trasmesso
sono ancora tra di noi e lo resteranno per sempre. Siamo portatori di quel
messaggio, anche se pochi, come lo erano loro, proseguiamo quella missione di
onorare la Patria, la bandiera e ricordare quel giorno in cui si ebbe a
compimento l’inizio del Secondo Risorgimento Italiano.
Vi doniamo per questo giorno del ricordo le parole tratte dal diario del Caporal maggiore Federico Marzocchi
LI Battaglione Bersaglieri A.U.C. , seconda compagnia.
E’ storia viva, dai colori verde
bianco e rosso. E’ storia di soldati “poveri” a cui mancava tutto tranne il
coraggio. E’ la Nostra storia è ci piace così.
Primo Raggruppamento Motorizzato, aggregato alla 36a Divisione Texas, US Army LI Btg. Bersaglieri AUC, battaglia di Montelungo.
good luck! Disse un soldato della 36a Texas mentre usciva dalla sua postazione per dare il posto ai Bersaglieri.
Non l’ebbero, ma conquistarono lo stesso la vetta.
ls
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IL MIO OTTO DICEMBRE è cominciato
il sette.
II Cap. Visco mi dice di passare
il Peccia e di occupare con la mia squadra il boschetto, la piccola altura al
termine della quale avrei dovuto disporre (se ricordo la terminologia) dei
posti di sorveglianza e segnalazione.
Vedo che ci sono delle buche in
cui un uomo sta giusto in piedi sporgendo solo con gli occhi; quel che ci
vuole. Dico di stare attenti, io sarei passato ogni ora per avere notizie.
Poi trovo una buca per conto mio
e mi siedo sui ciottoli del fondo col sedere a bagnomaria. Mi dispongo in testa
quel pezzo del telo da tenda che il Regio Esercito aveva splendidamente
elargito a ciascuno.
Nel corso del primo minuto mi
addormento come un tasso, sogno tutto il sognabile e forse qualche cos'altro,
mi sveglio di soprassalto sentendomi in ritardo sui miei appuntamenti e salto
fuori dalla buca. Ho riposato sin troppo e vado a vedere cosa c'è di nuovo.
C'è di nuovo che si sentono voci
sommesse a pochi passi. Mazzeo mi dice che sono tedeschi. Ascolto. Boia! Sono
proprio crucchi. Vai indietro e avverti! Lui torna e dice che sarebbero
allucinazioni. La paura fa questo ed altro. Verifichiamo per bacco! No, no,
questi sono tedeschi, altro che allucinazioni. Torna giù a dirlo! Ma non serve.
E allora non resta che aspettare mattina.
Notte lunga. La notte della mia
vita, in cui mi debbo convincere che sono già morto, in potenza, e che la morte
fisica, più o meno scontata, è un fatto di tempo, una modalità casuale che non
sollecita più neanche un senso di curiosità. Come deve succedere, succederà:
dato che ormai son morto è naturale che dorma.
Ma qualcuno mi dice: dai che la
Compagnia sta arrivando e corro nella nebbia a raccogliere la mia squadra, è
ancora buio, mentre il primo plotone mi sorpassa a sinistra. Sbrigati per dio.
I primi colpi: la battaglia è iniziata e io sono qui che piscio. Mi mancano
ancora i fucilieri e il tenente Ruini sta già tornando indietro con un
fazzoletto stretto alla coscia con un filo di sangue. Avanti, porca vacca.
Nel fossato anticarro che ci
sbarra la strada, tra la fine del boschetto e l'inizio del campo, c'è rintanata
mezza Compagnia. Io grido Sesta squadra avanti e scavalco il fossato, assieme a
Galletti che guida la VI squadra, mentre il primo plotone scatta sulla mia
sinistra a ridosso del terrapieno della ferrovia.
Faccio uno sbalzo, come mi hanno
insegnato. Mi fermo quando vedo davanti a me il lampeggio delle mitragliatrici
tedesche che fora la nebbia. Ma sono in mezzo al campo senza schermi o ridossi.
Solo la nebbia mi protegge. Male caporalmaggiore. Sesta squadra! E compare
Mattei Gentili, il mio amico Toio, capo arma, con un’espressione intenta come a
un esame, ma senza ombra di paura. Là e gli indico degli sterpi sulla mia
destra al limite del campo. Toio fa lo sbalzo laterale. Non si fanno fare
sbalzi laterali, caporalmaggiore. Mettiti in tela e vai in camera di punizione.
Mattoccia porta arma lo segue e dietro di lui, di corsa in gruppo, i
portamunizioni. Sento la voce del tenente Scamuzzi che incita i suoi ma la
frase si interrompe come una esplosione. Sulla sinistra il primo plotone
disteso a terra lungo il terrapieno della ferrovia è percorso da un fremito.
Grida, imprecazioni e corpi che rotolano giù. No, non può essere, è Canali, è Cosimini,
è Biancofiore, sono i miei amici, non possono morire, non possono morire per
sempre, scomparire e lasciarmi orfano di questa parte della umanità che mi
appartiene.
Spara Mattoccia, spara! Ma lo
stesso fremito di morte passa sulla mia squadra che rotola nel fossato al di là
degli sterpi.
Non c'è più sbalzo laterale, non
c'è più niente che conti. Li ho portati a morire, li ho portati nel posto che
non avrei mai dovuto indicare. Mattoccia è ferito alla coscia, Morelli,
Maccheroni sono a terra sanguinanti. I pacchetti di medicazione; li usiamo
tutti, Mattei ed io, ma ci vuol altro. Mattoccia ha già gli occhi vitrei e sul
suo viso infangato le gocce di pioggia formano delle piccole macchie chiare.
Gemiti, invocazioni di soccorso, qualche testardo che non vuole ancora morire.
Ma siamo morti tutti, ormai, non l'hai capito? È morta la 2ª Compagnia. E
questa nebbia tragica, interrotta dalle fiammelle delle mitragliatrici tedesche
che seguitano - maledette - a sparare. Chi vuoi uccidere, ormai, neanche tu hai
capito che siamo tutti morti? Ma una bomba a mano col manico rotola vicina a
Toio che senza scomporsi fa in tempo a raccattarla e rispedirla: esplode in
aria.
Raccogliamo tutte le bombe a
mano, le nostre Odino Terni Orlando (se ben ricordo) dal grande effetto morale.
Poi Toio alza l'elmetto sulla
baionetta al di sopra del fossato e io butto una dopo l'altra tutte le bombe a
mano nella direzione delle fiammelle che forano la nebbia. Chissà, forse li
abbiamo presi o forse se ne sono andati - è più probabile – per via del grande
effetto morale. Per lo meno non sparano più.
Ormai ci siamo solo noi nel
fossato. Gli altri si sono convinti di essere morti. Tranne qualcuno nel campo
che seguita a chiamare e a chiedere aiuto. Ma non è raggiungibile. Non si può salvare,
non c'è modo. E noi siamo chiusi in questa trappola.
Troviamo di fianco al fossato una
specie di pozzo rotondo, semicoperto da un albero spezzato, che ci consente di
issarci a guardare intorno. Nel campo e sul terrapieno solo corpi riversi, armi
e materiale sparso. Arrivano chissà da dove altri due dei nostri. Stravolti.
Una mitragliatrice tedesca riapre il fuoco. È un pò più lontana di prima.
Precipita nel nostro rifugio il sergente maggiore Torre. È a lui che sparavano.
Ho capito che eravate qui e sono venuto a dirvi che l'unica è aspettare la
notte. Di qui non si esce. E tu, Sergente Maggiore Torre, che al corso ci hai
rotto più di ogni altro, sei venuto da dietro, dove eri, al sicuro, in mezzo
alle raffiche per dirci di non muoverci? Caro, generoso Torre!
Ma i mortai, o, che ne so,
l'artiglieria comincia a pestare forte. Gli scoppi sono sempre più frequenti e
vicini. Ci ritroviamo coperti di terra, mentre dal rantolo che ci circonda si
alza qualche flebile invocazione. È la nostra artiglieria che spara per
impedire un contrattacco? Bisogna dire che allunghi il tiro se vuole sparare
sui tedeschi e non sui morti e sui moribondi. Ci vuole uno che esca. Ma ormai
la nebbia si è diradata e ci si vede. Toio mi guarda e dicevai tu? Datemi una
spinta che salto fuori più in fretta che posso e poi, se riesco, corro a tutta
birra sul campo, supero il reticolato nel punto in cui è abbattuto e mi butto
nello sbarramento anticarro. Di là c'è il boschetto e uno è a ridosso. Se non
ce la faccio, dico a Toio, parti tu. E mi catapultano fuori. Ho fatto due passi
e una raffica mi sibila attorno. Mi butto a terra rivolto verso l'arma nemica e
un colpo solo ben mirato mi colpisce al gomito sinistro. Un senso di
intorpidimento del braccio più che dolore.
Urlo a Toio mi hanno preso. Non
muoverti. Non si passa. Ma lui è già saltato fuori e corre a zig e zag come una
lepre impazzita mentre la mitragliatrice tedesca lo insegue. Ha superato il
reticolato! Ancora pochi metri ed è salvo. Me lo vedo cadere e urlo Torre non
ce l'ha fatta neanche lui. State fermi e aspettate la notte. Se arrivano vi
avverto.
Mi metto supino col braccio
ferito sulla pancia. Ma a ogni mossa che faccio tornano a sparare. Ma sono
lontani e non mi beccano più, o quasi. Striscio lentissimo indietro e in un
paio d'ore raggiungo il reticolato. Ma il senso di benessere che dapprima mi ha
dato il dissanguamento si traduce in un senso di freddo insopportabile. Ecco
perché i romani si svenavano nel bagno caldo! E la ferita mi fa troppo male.
Non ce la faccio più. Svengo, rinvengo. Facciamola finita con questa agonia. Mi
alzo in piedi faticosamente. Ma non mi sparano. Non mi sparano, non mi sparano
e comincio a concepire l'incredibile. Sta a vedere che riesco a squagliarmi.
Debole e dolorante faccio qualche passo. Scavalco il reticolato e vedo il
fossato anticarro. Mattei non c'è. Allora ce l'ha fatta! Ormai ce la faccio
anch'io! Ma ecco la raffica alle spalle. Carogne! Proprio ora che avevo osato
sperare. Svengo e rotolo nel fossato.
Quando rinvengo sono piuttosto malconcio
e il braccio fratturato è voltato a rovescio. Lo metto al collo sotto la
bretella della maschera antigas e mi avvio, scavalcando il corpo quasi
putrefatto di un soldato americano di colore, verso il boschetto. Toh! C'è
Tonino di Giorgio che assiste Castellaro ferito alla spalla. Castellaro si
infila in una buca, sfila le sigarette di tasca e dice che non si muove prima
di avere finito il pacchetto. Di Giorgio mi prende per il bavero e mi porta
indietro verso le nostre linee. Attraversiamo il Peccia e vediamo a mollo il
fucilone Solothurn della squadra di Marzollo. Deve essere andata male anche a
lui. Infatti è un punto scoperto e da un varco del terrapieno della ferrovia
siamo raggiunti da una raffica. Di Giorgio mi butta a terra e si butta sopra di
me per ripararmi.
Poi mi rialza e mi trascina il
più rapidamente possibile dietro un riparo. Ci sono i resti della compagnia:
sei o sette uomini laceri, sporchi, allucinati, irriconoscibili. Procediamo in
un camminamento e incontriamo la terza Compagnia, col Capitano Castelli in
testa venti metri davanti agli altri. Gli dico che sto andando a Bologna. Che
spirito! Meletti mi dà una Chesterfield perché le mie sono inzuppate di sangue.
Tutti mi incoraggiano e io raccomando di essere prudenti e di non farsi fregare
come noi della seconda.
Finalmente due portaferiti mi
caricano sulla barella che dopo tre passi si sfonda e vado per terra. Ne avrei
fatto a meno, oggi non sono in vena di scherzi. Arriviamo a piedi alla strada
statale, tutta una buca. Una jeep americana arriva a tutta velocità facendo lo
slalom tra le buche. Ci carica e ci porta al posto di medicazione americano
dove un tale mi sente il polso mi mette una stoletta e mi dà tanto di
benedizione. Poi mi tagliano i vestiti, mi medicano con rapidità ed efficienza,
immobilizzano il braccio con una ferula, mi praticano iniezioni coagulanti, mi
dicono che ho perso due litri di sangue, mi fanno una trasfusione di
proporzioni gigantesche, mi riempiono la barella di sigarette e cioccolata e mi
portano all'ospedale da campo italiano.
E qui ricomincia la naia.
Ma questo è un altro capitolo e
lo racconterò un’altra volta.
Comunque voglio aggiungere solo
che sono diventato donatore di sangue per pagare il mio debito a un tizio che
non conosco ma che, assieme a Torre e Di Giorgio, mi ha permesso di ricordare a
quarant'anni di tempo, tutto questo.
8 DICEMBRE 1943 – pomeriggio
Ospedale da campo. Un tendone
insanguinato. No, un girone dell’inferno. Camici imbrattati, barelle, divise
stracciate che mostrano ferite aperte, tutti corrono, si urtano, gridano ordini
e richiami in una confusione indicibile.
La mia barella è stata posata per
terra in un punto di passaggio. Mi scavalcano e vanno oltre. C’è ben altro da
fare che occuparsi di quello lì già medicato, fasciato, rifocillato che ha
l’atteggiamento di chi accampa delle pretese!
Ma il tempo passa e non succede
niente. Sta per imbrunire e chiedo a me dove mi mettete? Tu vai all’Ospedale
Territoriale, appena l’autoambulanza è piena. C’è un ordine, mi si dice,
secondo il quale l’autoambulanza deve muoversi solo a pieno carico. Speriamo
che i Tedeschi ci procurino in fretta gli altri tre feriti. E così è. Si parte
su una carretta traballante su strade sconnesse.
A Maddaloni arriviamo in tre. Il
quarto è morto. Morto di naia. Ma gli ordini sono ordini, anche se concepiti
sei mesi o sei anni prima, quando non c’era benzina.
All’astanteria primo
interrogatorio: nome, cognome, grado, reparto, circostanze del ferimento.
Verbale con timbro tondo e firma. Mi mettono su un letto.
Saranno le 10 di sera. Chiedo di
mangiare qualcosa: non ho toccato cibo da ieri sera e oggi è stata una giornata
un po’ movimentata. Non è possibile, non sono “in forza” che da domani e la
spesa viveri viene fatta in base alle presenze alla mezzanotte. Ma allora è
naia anche qui, il corso continua. Domani si farà certamente esercitazione! Una
sorella della Croce Rossa ascolta la mia contestazione e mi dà un panino dei
suoi, risparmiato a cena. Già, oggi mi sono emancipato dalla soggezione che mi
aveva reso così disciplinato durante il corso; mi sento libero di esprimermi
alla pari con tutti.
E’ mattina finalmente e mi
portano al 1° Chirurgia, il reparto privilegiato del colonnello Musto. Nuovo
interrogatorio e relativo verbale. Poi mi assegnano un letto, mi spogliano,
portano gli abiti laceri e inamidati di sangue in “fagotteria”, mi mettono un
camicione con la manica sinistra tagliata per la lunga e tenuta da laccetti
sfilacciati e mi portano in medicazione. Una fila di barelle per terra, in
attesa del turno. Qualcuno urla nell’ambulatorio e tra i barellati si diffonde
una certa fifa. Infatti la mia medicazione è tremenda, mi pare che mi strappino
la carne, più che le bende.
Ora è finita e sono di nuovo in
camerata. Siamo una trentina disposti sulle due pareti lunghe. Faccio amicizia
coi vicini. Cernuschi, allievo ufficiale dei granatieri, bianco e timido, ha
perso un piede su una mina e racconta l’episodio quasi come se si scusasse per
essersi sbagliato e per dare tanto disturbo.
Coira, contadino dell’alto Cuneense,
ha una gamba in cancrena e alterna urli di dolore a canzoni dialettali: tutto a
pieno volume con un’alternanza imprevedibile. Castelli, sergente maggiore, ha
la mia stessa ferita: frattura esposta comminuta del gomito.
Viene a visitarci Umberto, Luogotenente
Generale del Re e si ferma al mio letto. Si ricorda di me per avere scambiato
due parole il 25 Settembre quando ci passò in rivista a Bari. Dice che mi verrà
ancora a trovare.
Al 2° Chirurgia viene ricoverato
il mio amico Toio Mattei Gentili. E’ ferito da una scheggia al gomito. Cosa da
poco.
Castelli tende a guarire e io
invece giorno per giorno sto sempre peggio. Ho la febbre alta e le medicazioni
ogni mattina mi fanno impazzire. Il Col. Musto mi dice: C’è un ossicino che
debbo togliere. Ti farò un po’ male. Poi spinge la pinza nella carne, aggancia
l’ossicino, lo fa passare attraverso i tessuti e “bang” nella bacinella. L’avrà
fatto venti volte e io sono svenuto quasi sempre. La naia continua. Ormai non
c’è più giorno e notte, il mio tempo è scandito dal succedersi delle
medicazioni. Quando mi riportano in camerata, farnetico per ore prima di
ritornare in me. Vorrei morire, non ce la faccio più. E l’osteomielite che mi
morde come una iena.
Umberto di Savoia viene spesso a
trovarmi. Si siede sul mio letto e mi dice di tenere duro. E’ un grosso
conforto per me.
18 Gennaio: resezione dei capi
articolari. Ti tiriamo via tutto il gomito, facciamo una bella pulizia e così
guarisci.
Il cloroformio che voltastomaco!
Mi sveglio nel mio letto, ma ho
male ad una coscia. Un infermiere mi solleva le coperte e toglie una borsa
d’acqua bollente con la carne attaccata. E va bé, è stato un errore, ma dopo il
cloroformio c’è pericolo di polmonite e bisogna star caldi.
La naia continua.
Un paio di giorni e poi di nuovo
la medicazione. Il Colonnello mi dice C’era un buco di entrata di un proiettile
anche vicino al polso, non te ne eri accorto?
Passano i giorni e la febbre
aumenta invece di diminuire, l’osteomielite ha ripreso a divorarmi. Bisogna
amputare.
L’8/2/44 mi amputano e il mio
braccio mi precede sotto terra. Non ci si rassegna facilmente a vent’anni.
Poi gradualmente il peggio.
L’osteomielite ha ripreso la via ascellare. Sono stremato e così magro che
abbraccio la coscia con la mano. La sera ritirano i miei vestiti in fagotteria,
prima che chiuda, e me li mettono nel cassetto a piè del letto. Per vestirmi
subito se muoio durante la notte. E’ una manovra che ormai conosciamo bene,
perché sono già morti tanti in camerata!
Viene anche il becchino. Vecchi,
di Bologna, e considera ad alta voce che ho una corporatura tale che qualunque
cassa va bene.
Poi il prete, ma gli dico che non
si disturbi, grazie.
Ho tre coliche renali e il Col.
Musto dice di farmi un’analisi delle urine. Nefrite. Allora – spiega il
Colonnello al codazzo dei suoi assistenti- se mangia muore per la nefrite, se
non mangia muore per l’osteomielite. Non è più il caso di curarlo. E io sono lì
che assisto. Ma che importa? E’ un militare e la psiche non ha stellette!
Almeno non mi torturano più con le medicazioni e crepo in pace. Ma – guarda
caso - si verifica tutto il contrario: non irritata dalle continue medicazioni
l’osteomielite si placa e una mattina mi sveglio col moncone quasi sgonfio non
più infiammato né dolente. La febbre cala e un giorno mi alzano per una
passeggiata sino in fondo al letto. Smettono di portare i miei vestiti avanti e
indietro dalla fagotteria.
E’ primavera e, sorretto da due
infermieri, vado fuori all’aperto. L’erba è ricresciuta, tutta la natura è
rinata e io, restituito alla vita, non posso trattenere le lagrime. Mi sento
fuso nella coscienza del creato.
Caporalmaggiore Federico Marzocchi
LI Battaglione Bersaglieri A.U.C.
"Montelungo", seconda compagnia.
ASS. LI BTG. Bersaglieri AUC "Montelungo 1943"
Sez. ANCFARGL, Associazione Nazionale Combattenti Forze Armate Regolari Guerra di Liberazione.
lunedì 6 settembre 2021
8 settembre 1943 l'associazione ricorda questa data con gli scritti del Bersagliere del LI,Carlo De Carlo, Classe 1922
sabato 3 luglio 2021
Ricordo di Victor Tory Failmezger - non lo dimenticheremo mai
E' salito oggi in cielo, tra gli eroi, il nostro socio onorario Victor Failmezger, per tutti "Tory", dopo aver combattuto per un anno contro un terribile male.
domenica 25 aprile 2021
25 aprile 1944 - 25 aprile 2021, dedicato a loro.
In questo giorno, nel quale ricordiamo l'avvenuta liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo, ci torna subito il pensiero a quanti non videro quel giorno, ma furono i primi a credere in quel Secondo Risorgimento Italiano.
Insieme a loro ricordiamo i fanti, i marinai, gli aviatori che videro quel 25 aprile del 1945 ed i nostri Bersaglieri, che ci hanno fatto compagnia per tanti anni, fondando l'associazione e dando il via ad una storia che dura ancora oggi e che ci sarà anche domani, perchè i messaggi che ci hanno lasciato accompagnano il presente e le generazioni future che vivranno all'interno dell'Associazione LI Btg. Bersaglieri AUC "Montelungo 1943".
Ed è proprio in un giorno come questo, dove spesso si dimenticano i soldati dei gruppi di combattimento Italiani, che noi dedichiamo a tutti Voi alcune delle frasi che quei ragazzi del Secondo Risorgimento Italiano ci hanno lasciato; e per ultima la frase di un partigiano, impiccato a Berlino l'8 settembre del 1943, ne abbiamo fatto il nostro credo dal primo momento in cui l'abbiamo letta.
Quindi vi lasciamo alle loro frasi, alle foto dei nostri padri fondatori che erano a Bologna in quel 25 aprile del '45 e a quella frase in cui crediamo di più, che ci fa vivere ogni giorno come se fosse il 25 aprile.
Ciao
Dal portafoglio del sottotenente Giancarlo Gay, caduto sulle rocce di Montelungo mentre assaltava un nido di mitragliatrici, appariva un lembo di tricolore con la scritta:
“Anima
mia!”
Mario Cheleschi, nel suo testamento scritto il 30 Novembre del 1943 prima della partenza per il fronte, scriveva:
“Lascio da uomo questa vita, non inquieto ma sereno,
il Mistero dell’al di là è tanto grande!”
Giuseppe Cederle, 25 anni. Chiese di andare in prima linea con i suoi ragazzi al comando di un plotone. La citazione della sua medaglia d’oro dice:
Sotto micidiale tiro di mitragliatrici e bombe a mano, con un braccio fracassato, incitava i suoi uomini a sostenere il contrattacco nemico gridando:
Colpito a morte, trovava ancora la forza di trarre da sotto la giubba una bandiera tricolore, che scagliava in un supremo gesto di sfida contro il nemico, additandola ai suoi soldati perché la portassero avanti.
I “bocia diciottenni” Bornaghi, Luraschi, Morelli, Santi, Sibilia.
Erano ragazzi dell’Accademia navale di Brindisi, fuggiti per arruolarsi volontari nel Cinquantunesimo Bersaglieri per servire la Patria, per liberare la nazione. Si unirono a quel gruppo di bersaglieri, patirono la fame ed il freddo come gli altri, ma non videro l’Italia libera, caddero tutti la mattina dell’8 Dicembre nel primo attacco dei Bersaglieri a Monte Lungo.
Dario Sibilia, Bersagliere del LI btg. Bersaglieri A.U.C., appunti trovati nel suo zainetto accanto al corpo.
"Guardo con profondo dolore la situazione nazionale e internazionale della mia Patria e vengo a queste conclusioni. Per il momento bisogna buttare a mare ogni idea di partito, ogni idea personale, per pensare, essenzialmente, a poter salvare il salvabile della nostra Patria….Quindi il comportamento nostro (primo nucleo di forza al loro servizio) deve essere ammirabile, i morti che verranno saranno dei veri e puri eroi, che daranno il loro sangue per questa Patria tanto martoriata ed afflitta"
"La mia vita deve essere spesa esclusivamente al servizio della mia Patria, del mio Re. Per questo, solo per questo, ho lasciato il certo per l'incerto. Voglio combattere, voglio dare anch'io il mio modesto contributo alla mia Patria ridotta in sì pietose condizioni. Voglio incominciare, a diciott'anni, la mia vita al sacrificio, per poi spenderla, sempre e costantemente, per la ricostruzione dell'Italia."
Non dimenticate.
Vi chiedo una sola cosa:
se sopravvivete a questa epoca non dimenticate.
Non dimenticate né i buoni né i cattivi.
Raccogliete con pazienza le testimonianze di quanti sono
caduti per loro e per voi.
Un bel giorno oggi sarà il passato e si parlerà di una
grande epoca e degli eroi anonimi che hanno creato la storia.
Vorrei che tutti sapessero che non esistono eroi anonimi.
Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, e il dolore dell
'ultimo fra gli ultimi non era meno grande di quello del primo il cui nome
resterà.
Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini come
persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia, come voi
stessi.
Julius Fucik eroe e dirigente della Resistenza cecoslovacca, impiccato a Berlino l’8 settembre 1943
Agli ultimi fra gli ultimi, buon 25 aprile.
Ass. LI Btg. Bersaglieri AUC "Montelungo 1943"