Titolo: Il primo e l’ultimo
Autore: Adolf GALLAND
Casa editrice: Longanesi &
C., Milano
Anno di edizione: 1964 (IV)
Pagine: 612 (con foto bn fuori
testo, 5 grafici e mappe, 12 trittici di velivoli da caccia)
Dimensioni: 19 X 12 (8°)
Prezzo originario: £ 2500
Prezzo Euro: 20 (ma in vendita
tra i 30 e i 40)
Reperibilità: difficile
Sinossi: quasi d’obbligo, per me,
recensire questo volume. Se volessimo applicare un principio meramente
quantitativo il più grande asso dell’aviazione tedesca, e mondiale, è Erich
Hartmann, ma – senza nulla togliere ai meriti di questo pilota – le sue
vittorie vennero ottenute sul fronte dell’Est contro piloti e macchine di ben
altra levatura rispetto agli Spitfire contro cui duellò Galland. Egli non fu
solo pilota ma anche Generale della caccia tedesca e pertanto ripercorre tutto
il percorso della II guerra mondiale chiarendo i motivi della sconfitta, ma
anche gli errori della guerra aerea degli Alleati che arrivano a colpire troppo
tardi il cuore del sistema bellico tedesco: gli impianti di produzione del
carburante sintetico. Pagine di grande interesse sono dedicate alla Battaglia
d’Inghilterra, ed all’immissione nei reparti operativi dei caccia Me 262.
Pongo l’accento, essendo il forum
centrato sulle tematiche navali, sui due capitoli (XX l’operazione Donnerkeil e
XXI Il forzamento della Manica) relativi all’ operazione compiuta nel febbraio
1942 dagli incrociatori Scharnhorst, Gneisenau, e da quello pesante Priz Eugen
per trasferirsi da Brest alla Norvegia e a cui l’aviazione dette un essenziale
copertura, ulteriore dimostrazione dell’essenzialità della sinergia fra forze
aeree e navali nella guerra moderna.
Concludo citando una frase del
grande pilota che ritengo particolarmente pregnante e ho preso come motto:
“volare è ben più di uno sport e di un mestiere. Volare è passione e vocazione,
che riempie di sé una vita” filosofia valida , solo mutando il verbo, anche per
quanti vanno per mare.
Presento, infine, un’intervista
che ci fornisce alcuni accenni biografici e ricordi e opinioni sulla guerra
aerea del passato e del presente:
Parla Adolf Galland
IL DUELLO AEREO E’ FINITO a cura
di Mario Lombardo
A Bonn, gli uffici del consulente
(Industrieberate) Adolf Galland sono al n. 136 della Adenauer Allee, in un
palazzotto che conserva molto della rispettabilità borghese di fine secolo.
L’edificio è bianco, con tetti spioventi, ampie finestre dai vetri riquadrati.
I capelli ancora neri pettinati
all’indietro, i baffi spruzzati di grigio, Galland mi riceve in una stanza
intonacata di verde, dove alle pareti sono appese stampe di soggetto
aereonautico. Modellini in scala di aeroplani e elicotteri sono distribuiti
tutt’intorno, sui numerosi scaffali.
Adolf Galland è nato a
Westerholt, in Westfalia, il 19 marzo 1912. La prima volta che ha pilotato un
aereo aveva sedici anni, in guerra ha ottenuto 103 vittorie nei combattimenti
aerei del Fronte Occidentale, è stato il più giovane generale dell’esercito
nazista. Dieci volte decorato al valore, nel gennaio 1942 Adolf Hitler e
Hermann Goering fecero a gara per offrirgli i Diamanti previsti come grado
supremo della RitterKreutz insieme alle Fronde di Quercia e Spade.
A guerra finita, fino all’aprile
del 1947 è stato in prigionia, e gli uomini dell’Intelligence Service lo hanno
interrogato più di cento volte. Poi è andato in Argentina, per sette anni è
stato consulente dell’aviazione di Peròn, a Buenos Aires. Intanto nel 1953,
pubblicava "Die Ersten und die Letzten", le sue memorie tradotte in
italiano con il titolo “Il primo e l’ultimo”.
Da tempo il generale ha gettato
il sigaro. Ne fumava di enormi quando sedeva al posto di pilotaggio, durante la
seconda guerra mondiale. Dagli anni Sessanta ha smesso di fumare, ora è un uomo
d’affari affermato, lavora per grandi industrie aereonautiche come la United
Aircraft International americana, la Leigh Instruments canadese, la tedesca
Vereinigte Flugtechnische Werke-Fokker GmbH.
In Germania è rientrato nel 1955,
si è sposato per la seconda volta. Ha due figli piccoli, un maschio di nove e
una femmina di sei anni: con la famiglia vive a Oberwinter, vicino a Bonn. Per
lavoro, quando deve spostarsi rapidamente, si serve del suo Beechcraft Bonanza,
che egli stesso pilota anche nelle competizioni aeree cui partecipa da amatore.
Alto, robusto, le grandi mani che
si muovono lente a sottolineare le fasi più salienti del racconto, quando parla
di sé Galland sembra impacciato, tende a minimizzare la fama eroica di cui lo
hanno circondato. Invece risponde con lucido distacco se lo si interroga sui
tempi in cui combatteva, dai duelli contro i Rata sovietici durante la guerra
di Spagna agli ultimi scontri nel cielo infuocato del Terzo Reich che precipitava
verso la sconfitta.
D. – Generale, qual è stato il
più pericoloso tra gli aerei nemici che ha dovuto affrontare?
R. - Nei primi anni di guerra lo
Spitfire inglese, soprattutto perché i piloti della RAF erano perfettamente
addestrati e sapevano sfruttare al meglio il loro mezzo. Poi, nella seconda
metà del conflitto, il pericolo maggiore era rappresentato dai Mustang che però
venivano usati come scorta, e quindi dai Tempest, e dai Typhoon.
D. – E qual era il migliore degli
apparecchi tedeschi?
R. – Senz’altro il Messerschmitt
262, che Hitler voleva usare come bombardiere, invece che come caccia. E
dovetti discutere accanitamente, senza grandi risultati, per cercare di far
capire che non era utilizzato nel modo più logico.
D. – Quali erano le principali
differenze tra aerei tedeschi ed aerei alleati?
R. – Erano molte e notevoli. I
mezzi della Raf erano più maneggevoli e più docili dei nostri. Quelli tedeschi,
rispetto a quelli inglesi erano più veloci, e avevano maggiore potenza di
accelerazione. Gli americani, poi, avevano motori ancora più potenti dei
nostri, e erano costruiti con materiali migliori.
D. – Nel corso delle battaglie
aeree, era possibile riconoscere tra gli aerei avversari quello di un altro
pilota?
R. – No, era impossibile. Anche se
molti avevano dipinta sulla carlinga una specie d’insegna, un simbolo, un
disegno insomma, la velocità a cui si volava impediva di distinguerla. Si
notava la silhouette dell’aereo avversario, si riconosceva il tipo, ma si
vedeva l’insieme e non il particolare.
D. – Quante volte è stato ferito
in combattimento?
R. – Tre o quattro volte in
tutto. L’ultima quasi al termine della guerra, nell’aprile del 1945, sono stato
colpito due volte durante la stessa azione. Ma per molto tempo sono stato meno
esposto degli altri, perché dal 1941 sono stato nominato Ispettore Generale
della caccia, e non mi era più permesso volare. Continuavo a farlo nonostante
gli ordini contrari, ma di rado. Invece, tra i combattenti, la media è stata di
7 o 8 ferite durante la guerra, e ne conosco uno che è stato colpito undici
volte e sono veramente tante.
D. – Ha mai dovuto gettarsi col
paracadute?
R. – Oh si, naturalmente. E avevo
sempre una gran paura di non uscir fuori dalla carlinga, e che poi l’ombrello
del paracadute non si aprisse.
D. – Che cosa pensava durante le
azioni, e quando si preparava allo scontro?
R. – Sapevo di essere il capo, di
dover tenere l’ordine di formazione, e che le mie decisioni erano importanti.
Credo che, in volo, nessuno avesse una posizione migliore della mia,
tatticamente. Ma il comando non è che faccia sentire particolarmente forti, o
coraggiosi: si sa che i propri ordini possono essere decisivi, che si deve
scegliere da quale parte attaccare, o da quale parte sfuggire all’attacco, e
così via. Qualche volta, prima di salire a bordo, avevo i nervi così tesi che
tremavo tutto, altre volte avevo veri e propri conati di vomito. Mi sentivo
meglio soltanto quando la mia formazione era in volo.
D. – Conosceva gli aerei
italiani? E che cosa ne pensava?
R. – Ho volato sui vostri aerei,
e fu prima della guerra, a Grottaglie, in un corso di addestramento. Poi, vidi
l’Aereonautica Italiana all’opera in Africa, l’unica volta che andai in
ispezione nel deserto. Alcuni caccia li ebbi con me durante la battaglia
d’Inghilterra. Mi pare fossero un poco inferiori a quelli tedeschi, e
naturalmente anche a quelli alleati [1].
D. – E oggi se dovesse pilotare
un aereo da caccia, quale preferirebbe?
R. – Forse un Phantom, o un
Mirage. Ma no, non è vero; forse il più interessante è F 15, o anche uno dei
russi, come per esempio il Mig 23. Perché bisogna ammettere che i sovietici
costruiscono aerei molto, molto buoni.
D. – Ritiene possibile che in una
guerra moderna, si possano ripetere i duelli aerei della Seconda Guerra Mondiale,
con gli scontri risolti soprattutto dall’abilità del pilota?
R. – Assolutamente no! O meglio,
i “dogs fight”, i duelli, sarebbero possibili soltanto se le forze in campo,
esauriti i missili e le altre telearmi, dovessero ricorrere agli aerei per decidere
le sorti del conflitto, come potrebbero ricorrere ai duelli di artiglieria
campale. Ma in realtà con i mezzi che si impiegano oggi e che volano a velocità
superiori di due o tre volte a quella del suono, intercettazione sarebbe
impossibile. Ho scritto recentemente n articolo, a questo proposito, e ho fatto
presente che un caccia vola sui 9.000 metri di quota, a una normale velocità di
oggi, il pilota dovrebbe individuare l’obiettivo a decine di chilometri di
distanza per poter pensare di colpirlo. E francamente anche se i piloti attuali
sono forse migliori di noi, mi sembra una cosa irrealizzabile.
La Luftwaffe non esiste più da
trent’anni, c’è la pace finalmente. Agli Ju 44 [2], gli aviogetti che gli
avevano affidato nel 1945 Galland preferisce il tiro al piccione, o andare
armato di doppietta per boschi e prati, cacciando lepri e pernici. Lamenta
soltanto di aver poco tempo a disposizione, di non poter restare quanto
vorrebbe con i suoi figli.
Note (a cura di dieblaureiter)
[1] Il giudizio è più che
benevolo, basti citare il seguente episodio: “Nel dicembre del 1940 un povero
G.50 del Corpo Aereo Italiano ha un rientro estremamente travagliato dopo una
di quelle missioni di “prestigio” sul territorio inglese […] Al rientro sulla
costa belga trova infatti un terribile nebbione che lo costringe a volare alla
cieca per parecchi minuti. In un momento di schiarita il pilota avvista un
campo d’aviazione e vi si porta all’atterraggio, poco gentilmente accolto dalla
locale contraerea. Terminato il rullaggio, il pilota viene a sapere di essere
su un grande aeroporto della caccia tedesca, quello di Menden: poco dopo
l’aereo è ispezionato da alcuni ufficiali tra cui il generale Adolf Galland.
Questo grande pilota da caccia alla fine sottolinea la sua sorpresa nel notare
che l’aereo italiano è senza radio, senza battellino e pistola lancia-razzi,
senza la dotazione di tuta elettroriscaldata. Il nostro pilota, prode ma
povero, ha come solo riparo dal freddo una combinazione di volo riempita di
giornali e di stracci. Pochi giorni dopo, Galland è in visita ai nostri reparti
da caccia e lì, parlando con i piloti, li definisce degni eredi di Garibaldi
per il coraggio e la spensieratezza sempre dimostrata nel portare nel cielo
inglese macchine tanto superate come sono i caccia di cui dispongono.”
(Dimensione cielo aerei italiani nella II Guerra Mondiale Caccia Assalto volume
III, pagina 58)
[2] Si ratta di un errore
marchiano, Ju 44 non è la sigla indicativa di un modello di velivolo bensì
l’acronimo di Jagd-Verband (formazione da caccia) 44 l’unità basata a
Brandeburg-Briest e comandata da Galland che utilizzò i caccia a reazione Me
262.
L'intervista è tratta dalla
rivista "Storia Illustrata" del dicembre 1975.
Articolo tratto dal portale:
http://www.betasom.it/forum/index.php
XI Gruppo Sommergibili Atlantici
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