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martedì 23 settembre 2014

Il nuovo sito web del LI° Btg. Bersaglieri "Montelungo1943"

Il Blog cresce e diventa ancora più grande. 
E' passato un anno dalla presentazione di questo Blog ed oggi registriamo oltre 22000 persone che ci hanno fatto visita e che ci seguono.

Ma le necessità della moderna comunicazione, l'integrazione con i sistemi Apple e Android, dei moderni cellulari e palmari e la voglia di avere riunite ed organizzate tutte le informazioni di quest'ultimo anno ma anche quelle degli archivi più vecchi della nostra associazione, hanno reso necessaria la creazione di un nuovo sito web, di ultima generazione.

La prima fase dei lavori di costruzione è terminata e stiamo per annunciarvi l'anteprima del nuovo sito web dell'Associazione LI° Btg. Bersaglieri "Montelungo 1943".

Vogliamo diventare più grandi, accogliere sempre più persone, fare cultura, aggregare giovani e meno giovani, portare il messaggio dei nostri eroi e dei nostri reduci fuori dai confini della nostra regione, della nostra nazione. 
Lo stiamo già facendo ed un sito web è la giusta vetrina per farci conoscere e poter proseguire. 
Tanti sono i progetti di cui vi parleremo, le manifestazioni, le mostre e gli incontri che andremo a preparare, tanti sono i contatti che stiamo portando avanti con difficoltà, cercando di restare puliti da ogni contaminazione, sia essa politica, ideologica o più semplicemente campanilistica.

Rappresentiamo i bersaglieri, che dopo l'8 Settembre decisero, contro tutte le avversità, di proseguire la lotta per liberare l'Italia dal nazismo e dal fascismo ponendo la propria vita sull'altare della libertà e per dare alle nuove generazioni la possibilità di vivere da uomini liberi e non da schiavi.

Il Blog è stato la nostra prima casa, non lo dimenticheremo mai e continueremo ad aggiornarlo con le informazioni che andremo ad inserire nel nuovo sito web.

Integreremo il portale con i social network più diffusi, quali Facebook ed altri, creando una comunità che ci potrà seguire e contattare ovunque.

I Bersaglieri corrono verso il domani con le loro piume al vento.

"Vis Animus Impetus"

Tra qualche giorno vi comunicheremo il nuovo sito web....


venerdì 19 settembre 2014

20 Settembre 1870, la breccia di Porta Pia

L'8 settembre, alcuni giorni prima dell'attacco una lettera autografa del re Vittorio Emanuele II venne consegnata a papa Pio IX dal conte Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno. Nell'epistola al "Beatissimo Padre" Vittorio Emanuele, dopo aver paventato le minacce del «partito della rivoluzione cosmopolita», esplicitava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine».
Il 10 settembre il conte San Martino scrivendo da Roma al capo del governo, Giovanni Lanza, descrive i suoi incontri con il cardinale Antonelli del giorno precedente e in particolare l'incontro con il Papa. Scrive il conte:
« … che sono stato dal Santo Padre, che gli ho consegnato la lettera di Sua Maestà e la nota rimessami da V. Eccellenza.... Il Papa era profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma… Esso [il Papa] non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo raccapriccio per le carneficine francesi e prussiane, per non darmi a sperare che non siano i modelli che vuol prendere … fui fermo nel dirgli che l'Italia trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale… Il Papa mi disse, leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato di meglio gli si dicesse a dirittura che il governo era costretto di entrare nel suo Stato »
(Ponza di San Martino)
La risposta del Papa fu succinta:
« Maestà,
Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo, renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno.
 
Dal Vaticano, 11 settembre 1870 »
Il conte di San Martino riferì verbalmente la frase pronunciata da Pio IX: «Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma».
Quello stesso giorno il corpo di spedizione italiano stanziato in Umbria entrò nello Stato Pontificio marciando verso Roma, si trattava di circa 50000 uomini, agli ordini del generale Raffaele Cadorna mentre l'esercito pontificio contava 13000 unità, comandate dal generale Hermann Kanzler. Al generale Cadorna fu ordinato di portarsi in prossimità delle mura romane ma evitare momentaneamente qualsiasi scontro con le truppe pontificie, e attendere la negoziazione della resa. In caso di trattative infruttuose, avrebbe fatto ricorso alla forza, evitando, tuttavia, di penetrare nella Città Leonina.
Il maggiore Giacomo Pagliari, comandante del 34º Bersaglieri, colpito a morte durante la presa di Porta Pia[nell'elenco dei caduti (sezione sotto) non compare]
Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre l'artiglieria dell'esercito italiano, guidata dal generale Cadorna, aprì una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì di occupare la città a due battaglioni: uno di fanteria l'altro di bersaglieri, accompagnati da alcuni carabinieri.
Furono le batterie 2° (cap.Buttafuochi) ) e 8° (cap.Malpassuti) del 7º reggimento di artiglieria di Pisa ad aprire il fuoco alle 5.10 su Porta Pia. Una descrizione dettagliata (i colpi italiani sparati furono 888) e corredata da numerosi testi di dispacci sia italiani che pontifici si trova a pag. 1075 nel libro del Gen.Carlo Montù "Storia dell'artiglieria Italiana" (Ed.Arti Grafiche Santa Barbara, Roma). Il 7º Reggimento di Artiglieria del Regno d'Italia (attuale Reggimento NBC Cremona) era erede della Artiglieria Guardacosta dell'Esercito Granducale di Toscana, che fu la prima ad aprire il fuoco a Curtatone nella 1ª Guerra d'Indipendenza e ha avuto la sua sede agli Arsenali di Pisa fino alla fine della 2ª Guerra Mondiale.
Dopo l'irruzione dentro la cinta muraria delle truppe italiane vi furono ancora scontri qua è là che si spensero in poche ore con la resa chiesta dal Gen. Kanzler. La sera del 20 le truppe pontificie si concentrarono nella Città Leonina che lasciarono poi l'indomani mattina per andare a consegnarsi ai vincitori dai quali ricevettero l'onore delle armi. Una curiosità è che tra i partecipanti all'evento vi fu anche lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis, all'epoca ufficiale dell'esercito italiano che ha lasciato una particolareggiata descrizione dell'evento nel libro Le tre capitali:
« [...] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. [...] »
Sullo scontro, invece, ci offre alcune informazioni Attilio Vigevano che riferisce che mentre gli Zuavi pontifici combattevano, prima della resa, molti di essi intonarono il loro canto preferito quello dei Crociati di Cathelineau:
« Intonato dal sergente Hue, e cantato da trecento e più uomini, l'inno echeggiò distinto per alcuni minuti; il capitano Berger ne cantò una strofa ritto sulle rovine della breccia colla spada tenuta per la lame e l'impugnatura rivolta al cielo quasi a significare che ne faceva omaggio a Dio; presto però illanguidì e si spense nel ricominciato stridore della fucilata, nel raddoppiato urlio, nel tumulto delle invettive »
(Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, p. 571.)
Secondo la descrizione di Antonio Maria Bonetti (1849-1896), caporale dei Cacciatori Pontifici:
« Stavamo sulle righe, quando alcune voci sulla Piazza di San Pietro gridarono: "Il Papa, il Papa!". In un momento, cavalieri e pedoni, ufficiali e soldati, rompono le righe e corrono verso l'obelisco, prorompendo nel grido turbinoso e immenso di: "Viva Pio IX, viva il Papa Re!", misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato Pontefice, alzate le mani al cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo come un gesto di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non poter sostenere la nostra vista, allora sì veruno più poté far altro che ferire le stelle con urla, con fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di tanto cordoglio all'anima di un sì buon Padre e Sovrano »
Pio IX condannò aspramente l'atto, con cui la Santa Sede vide sottrarsi il secolare dominio su Roma. Si ritirò in Vaticano, dichiarandosi "prigioniero" fino alla morte, non riconoscendo la sovranità italiana su Roma. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, ma il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata come "Questione Romana", perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929.
Il primo francobollo a portare per il mondo la notizia dell'unificazione della nazione fu il Vittorio Riquadrato, di cui è giunto perfettamente conservato un esemplare su lettera timbrata proprio il 20 settembre 1870 a Roma.





 

mercoledì 17 settembre 2014

 
Paola, ti aspettiamo tutti a Montelungo,
per onorare e ricordare...
Un abbraccio da tutti noi.
 
 

domenica 14 settembre 2014

Una bella domenica di ritrovamenti..

Sembrava assurdo qualche domenica fa, seguire una traccia, un ricordo sbiadito dal tempo, che narrava di un camion e di una jeep nascosti in una grotta a pochi chilometri da Roma.
Ma la passione non si ferma a ragionare tanto su queste cose e quando l'ho detto a Marco Presti, presidente dell'associazione HighWay Six e socio del cinquantunesimo la risposta è stata una sola... quando andiamo?
La cosa incredibile è che quando stavo parlando con lui al telefono avevo da poco messo un cd di varie musiche da film (di guerra naturalmente) e stava andando il brano "Band of Brothers Requiem (voice)... sorrisi e pensai che forse era la volta buona che ritrovavo in quel fosso profondo il camion e la jeep che vidi tanti anni fa, da ragazzo, in una passeggiata in cerca di un laghetto e di una piccola cascata.
Partimmo in una domenica assolata e calda, condizione peggiore per la zona dove saremmo dovuti andare, ci davano una mano nelle ricerche due amici a cavallo, altra condizione sfavorevole perché sia io che Marco eravamo appiedati.
Il caldo era opprimente e non si respirava, la zona era infestata di zanzare in cerca di sangue umano e credo il mio gli piacesse particolarmente, ogni tanto spuntava dalla boscaglia, tra i rami e gli spini qualche gruppetto di ciclisti in mountain bike, chiedevamo informazioni a loro sulle grotte ma ci dicevano solo del laghetto e di come arrivarci.
Nella mia memoria ricordavo solo una salita, un piccolo pianoro, degli ulivi ed una serie di grotte, dove nella più grande giaceva un GMC intatto ed una Jeep Willys ed altre cose di cui non ricordavo bene.
La strada percorsa diventava sempre più lunga mentre l’orologio segnava orari di calura piena, ormai le speranze erano ridotte al lumicino.
Avevo trovato solo dei chiodi medievali gettati nella scarpata insieme ai calcinacci dai soliti ignoranti incivili di cui questo paese è pieno, che non capiscono non solo le cose che buttano ma i danni che arrecano all’ambiente.
Tutta la zona era abbandonata eppure era piana di tracce romane e medievali che se le avessero avute in Belgio, ci avrebbero sfamato l’intera regione.
Continuammo ancora per un po’, fino a trovare il laghetto e la speranza iniziò di nuovo a tornare; la memoria non mi stava tradendo e decidemmo di prendere una strada sterrata in salita (molto in salita) che si avvicinava ad un grande costone di tufo, raggiunto iniziammo a trovare le prime grotte ed i primi reperti assolutamente bellici, dei fusti di benzina, dei ganci di traino ed altro materiale troppo in profondità nelle grotte per essere decifrato al meglio.
Proseguimmo su quella stradina quando il muso inconfondibile di un camion alleato uscì dalla boscaglia, era lì da 70 anni e lo avevo ritrovato dopo averlo visto la prima volta 28 anni fa! Qualcuno lo aveva tolto dalla grotta che ora risultava chiusa da un cancello di ferro e lasciato a marcire all’aria aperta, ma lui aveva resistito, ed era li.
Per un appassionato di mezzi storici, come è Marco Presti, la vista di un GMC in quella boscaglia è un emozione diversa dalla mia, la sua vista ne studiava i particolari, la conservazione, le parti meccaniche, io mi limitavo a guardarlo in generale, mi stupiva la conservazione della sua stella e delle scritte USA nella parte anteriore. I fari sembravano occhi lucidi e vivi che ci dicevano “portatemi via da qui, sono vivo!” ed il motore sembrava intatto, come pronto a partire per uscire da quel fosso dove lo avevano abbandonato.
Restammo qualche minuto a guardarlo mentre un serpente enorme, di quasi due metri, strisciava a pochi metri da noi, entrando nella grotta da un grande foro nel muro.
Lasciammo il GMC, ma non fu un addio ma un arrivederci perché ci siamo promessi di tornare a trovarlo il prossimo inverno, forse in una missione recupero. Non si può dire di nò a quei fari così lucenti…
Buona visione.









sabato 13 settembre 2014


Oggi, 13 Settembre 2014, torniamo indietro di 71 anni per rivivere alcuni momenti che videro protagonisti i Bersaglieri del LI° ed in particolare due nostri eroi; Leone Orioli e Gianni Recchi.
L'amicizia che nasce in guerra è un'amicizia particolare, più forte delle altre, per questo tra i soldati, a distanza di anni, resta immutabile, viva, bella.
E' un'amicizia che nasce in circostanze dolorose e tragiche, quando si è soli di fronte alla morte, quando un compagno d'armi ti copre le spalle e tu fai lo stesso con lui.
E' un'amicizia che nasce dal pezzo di pane diviso a metà, dalla coperta data a chi ha più freddo, dalle cure prestate a chi è ferito o dal suo recupero di fronte alle armi del nemico.
Un'amicizia che cresce di giorno in giorno in attesa della tregua o della fine del conflitto, dai racconti di una vita vissuta e spensierata scambiati dentro una buca sotto un cielo stellato nei rari momenti di calma.
Un'amicizia che spesso nasce da una mano tesa dal cassone di un camion, mentre ci si appresta a salire per andare al fronte; un sorriso, un po' di posto recuperato tra i tanti sacchi, i soldati e le armi.
Una stretta di mano che non finirà più, come quella tra Leone e Gianni, e nel giorno del compleanno di Gianni Recchi vogliamo raccontarvi la loro storia con le parole di Leone Orioli.

Buona lettura.

Brano tratto dal libro di Leone Orioli "Montelungo, il riscatto"

.....13 settembre 1943 - In pochi giorni intanto si era rapidamente allestita, a nord di Bari, una  robusta linea difensiva protetta da solide palizzate:  una sola apertura  mobile,  posta sulla litoranea,  consentiva,  volta a volta,  l’ingresso agli automezzi  militari  o,  comunque,  a  quelli  regolarmente  autorizzati.
La mattina del 13 settembre 1943, dal Comando  Divisione  Costiera di Bari,  giunse  con  una  piccola  autovettura  un capitano  di artiglieria,   inviato in missione speciale per accertare, con la migliore  precisione possibile,  la posizione e la consistenza dei reparti tedeschi,  a nord della zona  fino a quel momento tenuta sotto il controllo volante delle nostre pattuglie.
Questo ufficiale chiese di essere scortato e protetto da una pattuglia di bersaglieri.
La nostra squadra,  designata  pattuglia di scorta per quella missione, partì quella mattina  alla volta di Trani,  bella cittadina toccata altre volte in precedenza dalle nostre pattuglie,  ultimo confine ritenuto ancora accessibile. Si sapeva infatti che nella prossima, vicina Barletta si era insediato un forte distaccamento tedesco, che aveva disarmato il presidio  militare  italiano.
Il comando della pattuglia era  stato affidato al tenente Nai,  al quale era   stato  affiancato  il  sergente  Riccardi. 
Il bravo, attivo sergente Giuseppe Riccardi,   era ben conosciuto da tutti gli allievi della terza Compagnia,    per le sue doti di ottimo sottufficiale, per  un  suo  caratteristico  comportamento,  per il suo curioso modo di parlare.   Era figlio di italiani all’estero,  vissuto per anni in Francia, aveva qualche difficoltà ad esprimersi in lingua italiana corretta; intendiamoci,  si faceva intendere benissimo,  ma certe sue espressioni  colorite  erano divertenti.
… stringi  i  “polpi”  pappagallo …  era il suo incitamento in campo  sportivo,  quando intendeva spronare  gli allievi a tendere i muscoli con maggiore  intensità.
Di  forte fibra fisica,  aveva il busto  piuttosto lungo e le gambe,  per contro,  visibilmente   corte. 
Per questo suo aspetto e struttura,  che condizionava un poco anche il suo modo di correre,   quel burlone di Gianni,  lo  aveva  fotografato  con  immediatezza   e  soprannominato   “Paperino”  -   e  … Paperino …  era  diventato  per  tutti  noi.
La pattuglia giunse in mattinata a Trani;  in quella cittadina era di  stanza   un  reggimento  del  Genio,  con  effettivi  di  circa  duemila soldati.
La  vita  scorreva  tranquilla  in  quella  bella,  ampia  caserma.
Sistemammo  le  motociclette  e  l’autovettura   dell’ufficiale  in  missione  nel cortile dell’edificio: annoto  che il tenente Nai,  come ha fatto in altre occasioni,  mi affida in custodia le chiavi dell’accensione della sua  monoposto    Nelle moto di noi bersaglieri non c’è bisogno di chiavi per  l’accensione  del  motore.
Accolti cordialmente dagli ufficiali e dal comandante del reggimento,  prendemmo posto nel locale  messo a disposizione,   facendo subito amicizia con quei soldati.   La pattuglia aveva svolto il suo compito di scorta e protezione per l’andata:  ora  si doveva attendere che l’ufficiale  portasse a termine la sua indagine,  pronti  ad accogliere ed eseguire le sue disposizioni,  per  poi  scortare il ritorno a Bari.  
Eravamo dunque in fase di attesa,  e si cercò di passare il tempo nel modo migliore. 
Io avevo intanto notato che  i magazzini della caserma erano ben forniti di materiale;  a me interessava  il magazzino delle scarpe,  particolarmente degli scarponi,  perché i miei  avevano le suole che, a ogni passo,  si aprivano  come le fauci di un coccodrillo,  rendendo naturalmente difficoltosa  la camminata:  il mio capitano  non aveva  potuto  darmene un nuovo paio, non avendo scorte a disposizione.   
Feci subito richiesta all’ufficiale addetto, e poi anche al comandante del reggimento, per avere un paio di scarponi nuovi, visto come erano ridotti i miei.  Mi fu risposto,  nonostante avessi  insistito nella mia richiesta anche con richiami alla particolare  emergenza  del momento,  che  per le rigide norme militari vigenti al riguardo,  non potevo essere accontentato: io  non  facevo  parte  dell’organico  del  reggimento.
 Siamo dunque in attesa nella caserma del Genio.
Giunge  d’improvviso di  corsa  un  soldato  che  urla … i tedeschi ! … portano  via  gli  automezzi dal  nostro deposito  
Saltiamo tutti d’impulso  sulle motociclette  e rapidissimi ci avviamo sulla strada  diretti al vicino edificio che ci viene indicato come deposito degli automezzi. 
Siamo in colonna:  davanti a tutti  il sergente Riccardi,  io subito dietro e poi in ordine tutta la pattuglia,  Gianni,  Mario,  Giorgio,  Edoardo, e gli altri. 
Nella furia del momento  non ho pensato di rendere al tenente Nai le  chiavi della  sua  moto.   Non è stato quindi in grado di seguirci ed  esprimerà poi il suo vivo disappunto,  con un aspro rimprovero a me, colpevole di  averlo costretto alla inattività:  rimprovero duro ma subito attenuato dalla disposizione benevola dell’ufficiale  e per la chiara  evidenza  della  mia  involontaria  omissione.
La pattuglia si avvicina,  notiamo subito, anche da lontano,   un automezzo  già sulla strada,  appena fuori dal  cancello del deposito:  i tedeschi vi     stanno  armeggiando  sopra.  Appena  vedono  sopraggiungere  in moto la pattuglia,  abbandonano il camion  e,   rapidissimi,   si raccolgono  sulla loro  camionetta   posta  sul  davanti  dell’automezzo  appena  requisito.
Con le armi in pugno i tedeschi, visibilmente tesi e preoccupati (li  vedo  chiaramente, siamo  ormai  molto  vicini),  attendono una nostra mossa; hanno evidentemente riconosciuto i bersaglieri di Bari, e  sanno   che  possono  essere   pericolosi:  hanno ragione  … incoscienti     … decisi … quindi pericolosi …
Riccardi,  davanti a me,  a  venti/trenta  metri   dai  tedeschi,  ferma la moto,  scende,  non pensa che  la pattuglia intera,   ancora in sella  in colonna          sulla  strada  è  un facile obiettivo per i tedeschi:  d’impulso  afferra il Beretta   dalla  tracolla  e  lo  alza sopra la testa,  rapidamente,  in  un  chiaro  gesto di minaccia: … e i tedeschi sparano immediatamente io vedo sgranarsi  sul muro di cinta del deposito la scarica dei proiettili,  a  pochissima  distanza  sopra  le  nostre  teste.  La tensione ha fatto  sbagliare  i  tedeschi,  una   mira  più  calma  avrebbe certamente procurato  gravi  danni alla pattuglia. In un attimo  siamo tutti a terra,  apriamo il fuoco a nostra volta: io sono steso accanto a Riccardi, su un piccolo  ammasso di ghiaia,  gli  altri, dietro, sparano, chini o ritti,  valendosi  della  protezione  degli  alberi  del  viale.
Riccardi  è  sulla mia sinistra,  un poco più avanti di me sul piccolo cumulo di  sassi  sul  quale  siamo  quasi  aggrappati: Riccardi spara  furioso  con  il  suo  mitra,  vuole  avere  il campo di tiro più  aperto  e  cerca  una  posizione  più  alta,  o  più  comoda sulla  ghiaia; spinge allora con il piede sui sassi per tirarsi più su, ma non trova presa sufficiente e io vedo sulla mia sinistra le sue gambette  corte  sparare   calci   furiosi,  senza   risultato. 
Dire  che, in  un  momento critico come quello, lo scalciare di Riccardi  mi  ha  fatto  sorridere,  può  apparire  eccessivo, “una bravata”,  ma io sorrisi.  
Il fracasso era infernale. Confesso che  ero un po’ preoccupato dal fuoco dei compagni della pattuglia  che erano dietro di noi: io e Riccardi  eravamo   infatti   sulla  strada   tra  i  tedeschi  e  il  resto  della  pattuglia.
Vedevo  la  camionetta  tedesca  impegnata nel tentativo di avviarsi per sottrarsi al nostro tiro e quasi  nello  stesso  momento  avvertii  un   piccolo  colpo alla nuca;  sorpreso  portai  la  mano  sul  punto  toccato (il colpo  era  stato  lieve,  nessun  dolore)   e  la  ritirai   piena   di   sangue. Un  poco perplesso  attesi  un  momento  a  capo  chino:  non avevo dolore,                 altri sintomi,  eppure  era  chiaro  che  ero  stato  colpito  da  qualcosa.   Non avvertivo nulla di preoccupante, così,  quasi tranquillo,  rialzai la testa  e  ripresi  in  mano  il  mio  moschetto.             
La camionetta tedesca era ormai lontana,  la sparatoria cessò,  la scaramuccia terminata:  lievissimi i danni sopportati dalla pattuglia, esplose  alta  la soddisfazione  per  avere   sventato  il tentativo  tedesco  di   sopraffazione. 
Ci fu festa attorno ai bersaglieri,  mentre   una  premurosa infermiera mi portò dal medico della caserma per una medicazione.   Oltre a me,  Sergio Agus aveva riportato   una ferita,  fortunata come la mia:  era stato colpito  da un proiettile alla mano destra che sosteneva il  moschetto,  gli aveva     lasciato una riga  tra il  pollice e l’indice,  quindi vicinissima  alla  guancia   sulla   quale   appoggiava   il  moschetto  in   posizione  di  tiro.
Mentre   mi   medicava,   il  medico   disse  … girati che ti voglio guardare in faccia  … porta una candela a S.Antonio  … la pallottola  ti ha lasciato la riga nei capelli …   Mi aveva appena sfiorato la nuca.                        
Nel tempo mi sono sempre chiesto  come,  nella posizione in cui mi trovavo,  una pallottola dei tedeschi abbia potuto sfiorarmi la nuca in quel  modo.  
Non  direttamente  certo,  mi avrebbe colpito,  magari di striscio,  ma su un lato della  fronte; forse di rimbalzo  ma, anche in  questo  caso   non  con  una  traiettoria  così  orizzontale.   
Non mi posi  allora questo  interrogativo,   nessuno  ci  pensò:  ci ho riflettuto dopo,  come ho detto,  e  ho ricordato che io e Riccardi,  sulla strada,   eravamo  di  fronte  al  cancello  del  deposito;   proprio in linea diretta  con il cancello e  il piazzale interno del magazzino  dove avevo   visto correre   dei soldati,   e questa linea era perfettamente compatibile  con la traiettoria  del  proiettile  che  poteva  avermi  ferito  in  quel  modo  alla  nuca...vuoi vedere che mi ha sparato qualcuno dall’interno del deposito ? …
Non voglio pensarci più.  rammento  che   quel  burlone di Gianni,   ricordando  Trani   … che lui  chiamava   la  sacca  di  Trani  … commentava,   ridendo,  … leo  è  diventato  un  eroe,   ferendosi   con  il  filo  della  frizione …
Grande  Gianni !   Il  13  settembre  era  il  suo  compleanno ! A distanza di oltre sessanta anni,  il 13 settembre di ogni anno ci scambiamo gli auguri   … io a lui  per il compleanno effettivo… lui  a  me,  perché,  dice,   quel  giorno  sei  nato  una  seconda volta … " 



giovedì 11 settembre 2014

12 Settembre 1943, Campo Imperatore, operazione Quercia, "Unternehmen Eiche"

L'operazione Quercia (in tedesco, Unternehmen Eiche) fu il nome in codice di un'operazione militare portata a termine il 12 settembre 1943 dai paracadutisti del Lehrbataillon (2. Fallschirmjägerdivision) e da alcune SS del Sicherheitsdienst, operazione finalizzata alla liberazione di Benito Mussolini imprigionato a Campo Imperatore sul Gran Sasso per ordine di Badoglio.
Il ministro Albert Speer, nel suo libro Memorie del Terzo Reich, ricorda la reazione di Adolf Hitler alla notizia dell'arresto di Mussolini, descritta come una sorta di fedeltà nibelungica: "Non c'era gran rapporto in cui il Führer non chiedesse che fosse fatto tutto il possibile per ritrovare l'amico disperso. Diceva di essere oppresso giorno e notte dall'angoscia".
La sera del 26 luglio 1943 Hitler convocò presso il suo quartier generale a Rastenburg, denominato in codice la "Tana del lupo", sei ufficiali scelti tra tutte le forze armate del suo paese per un'operazione segreta. Giunti al suo cospetto, egli chiese loro se conoscessero l'Italia e, in caso positivo, di esprimere un giudizio sugli italiani: le risposte furono tendenzialmente improntate sul generico ottimismo e più di uno confidò nella fedeltà degli alleati all'Asse Roma-Berlino.
Uno di loro, di nome Otto Skorzeny, 35 anni, comandante SS di un corpo di Kommando di stanza a Friedenthal, sapendo che Hitler rimpiangeva la perdita dell’Alto Adige, a suo giudizio la più bella delle regioni alpine, che per ragioni politiche aveva permesso che restasse annessa all'Italia, disse sommessamente: “Führer, io sono austriaco”. Hitler lo guardò e gli ordinò di restare, congedando invece tutti gli altri. Cominciò così l’operazione Eiche (quercia), la liberazione di Mussolini, deposto e arrestato in Italia.
« Racconti di fughe e liberazioni, drammatiche, romantiche, talvolta fantastiche, si possono trovare nella storia, ad ogni epoca e per ogni popolo, ma la mia fuga dalla prigione del Gran Sasso anche oggi appare come la più audace, la più romantica di tutte e, nello stesso tempo, la più moderna come metodo e stile. »
Il sistema di controllo hitleriano prevedeva che i subordinati avessero compiti comuni in diversi reparti, in modo da controllarsi a vicenda. Perciò l'operazione fu eseguita dai paracadutisti e dalle SS insieme. I ruoli di comando vennero assegnati al maggiore dei paracadutisti e comandante del Lehrbataillon Harald-Otto Mors, al generale Kurt Student, fondatore dell'arma dei paracadutisti e, come precisato, al capitano delle SS Otto Skorzeny (che alla fine se ne arrogò totalmente il merito, spalleggiato in questo dalla propaganda nazista e, nello specifico, da Ernst Kaltenbrunner).
Hitler spiegò a Skorzeny in tono di irritazione crescente che il suo alleato, Mussolini appunto, era stato tradito e arrestato, l’Italia era pronta all’invasione da parte degli Alleati, il Re insieme a Badoglio aveva tramato la caduta del fascismo e ora i due meditavano di andare dagli Alleati consegnando il prigioniero Mussolini quale capro espiatorio della decisione di andare in guerra. Infine aggiunse, come riporta lo scrittore Charles Foley, curatore della biografia di Skorzeny: “Lei, Skorzeny, salverà il mio amico”.
Skorzeny attivò subito i suoi uomini a Friedenthal, stendendo la prima lista di equipaggiamento, che andava dalle mitragliatrici e granate alla moneta italiana, abiti civili, tinture per capelli e ad altre cose di questo genere (tutto poteva dipendere da un unico dettaglio, magari insignificante all'apparenza). Poi, il giorno dopo, con Student e il suo pilota personale, Gerlach, partirono per l'Italia in aeroplano.
Arrivati a Roma raggiunsero immediatamente Frascati, dove si trovava il quartier generale del maresciallo Kesselring, comandante del gruppo di armate tedesche in Italia, anch'egli tenuto all'oscuro dell'operazione Eiche, mentre tre giorni dopo arrivarono gli uomini di Friedenthal. A pranzo con Kesselring emerse subito il problema del caso Italia: con Mussolini prigioniero, il re e Badoglio potevano contrattare la pace mentre contemporaneamente davano ad intendere ai tedeschi, per guadagnare tempo, di voler continuare a combattere al loro fianco.

In questo clima di diffidenze reciproche si pose il problema di scoprire dove gli italiani tenessero Mussolini; la prima notizia arrivò inaspettatamente da una lettera d'amore di un carabiniere a una ragazza: il militare scriveva dall'isola di Ponza dicendo alla fidanzata che Mussolini era confinato laggiù. Da una breve indagine si capì poi che il prigioniero era stato subito trasferito da Ponza alla Spezia, dove un incrociatore lo aveva prelevato. Berlino, tempestivamente informata, emanò questo ordine: «Abbordate la nave e portate via il prigioniero». I tedeschi erano impreparati per questo lavoro di pirateria, ma in ogni caso la preda sfuggì nuovamente: il governo italiano, che forse avvertì o intuì lo scopo della missione di Skorzeny in Italia, trasferì l'ex dittatore sull'Isola della Maddalena, presso la costa nord-orientale della Sardegna.
Un ufficiale di collegamento tedesco, ancora in contatto con gli italiani, accertò che Mussolini era in quest'isola situata cinque chilometri al largo della costa sarda. Skorzeny riprese le ricerche sbarcando alla Maddalena con un sottoposto, il tenente Warger (che parlava benissimo l'italiano), entrambi travestiti da marinai. Warger ebbe l'ordine di girare per le osterie fingendosi ubriaco e, durante una discussione da taverna, con un innocuo: "Scommettiamo che il Duce è morto?", riuscì ad avere l'informazione che cercava. Un ortolano del posto, che forniva quotidianamente Villa Weber di frutta e verdura, accettò la scommessa e portò il tedesco, di sera, a vedere il Duce che passeggiava in terrazza con la scorta. Il finto marinaio tedesco perse la scommessa, ma Skorzeny poté preparare il suo piano.
Skorzeny chiese un ricognitore Heinkel 111 per fotografare la zona dall'alto, ma una volta in volo egli, Hunaus e Warger vennero raggiunti da alcuni caccia inglesi e abbattuti. Precipitato in mare Skorzeny si ruppe tre costole ma riuscì a recuperare, dalla carlinga dell'aereo che stava per inabissarsi, la macchina fotografica. Mezz'ora più tardi i tedeschi vennero salvati da una nave antiaerea italiana: Skorzeny si trovò alquanto a disagio quando fu davanti al comandante, poiché era chiaro che la nave italiana stava lì a proteggere il nascondiglio di Mussolini. Ma i naufraghi non furono interrogati troppo minuziosamente e ben presto, con scarpe bianche e pantaloni corti prestati dall'equipaggio, Skorzeny fu di nuovo sulla terraferma, in Sardegna. Fu ricevuto dai commilitoni come un fantasma e venne inviato subito in Germania, dove si era avuta l'informazione, sbagliata, che Mussolini fosse sull'isola d'Elba.
Hitler si convinse subito dell'esattezza delle indagini di Skorzeny, cancellò l'incursione sull'Elba e gli chiese come suggeriva di prendere il prigioniero. Skorzeny prospettò una soluzione che prevedeva una finta visita di cortesia di una flottiglia di "Mas" alle autorità italiane e quindi, finite le procedure d'etichetta, un'educata marcia di soldati a terra sarebbe giunta fino, casualmente, a villa Weber. Il piano aveva la sua base nel convincimento che se si fanno marciare pacificamente i soldati attraverso un luogo, senza destare sospetti, nove volte su dieci è possibile cavarsela senza guai: una procedura azzardata ma basata sull'effetto sorpresa. Hitler approvò, ma aggiunse un ultimo avvertimento: «Capitano, se lei dovesse fallire, io dovrò sconfessarla. Perché, di nome, l'Italia è ancora nostra alleata e io dovrò dire, per ragion di stato, che lei ha agito senza alcun ordine, ha dirottato le unità e la sua azione pazzesca le è stata suggerita da eccessivo zelo e da ambizione personale. E lei non dovrà difendersi da pubblica riprovazione».
Skorzeny annuì, ma un'immagine gli attraversò la mente: anche Rudolf Hess, si diceva, era stato avvertito che sarebbe stato sconfessato come pazzo se il suo volo in Inghilterra non fosse riuscito ad assicurare una pace separata. Al ritorno in Italia era ormai tutto pronto per l'azione, ma nell'ultima visita nei pressi della villa Weber i tedeschi si imbatterono in una guardia che portava un pacco di biancheria e, nascostisi, notarono che le sentinelle alla villa, che pure c'erano, non erano più impettite: non facevano la guardia, andavano come a passeggio. Cosa era successo? Le autorità dell'isola, e soprattutto coloro che custodivano Mussolini, avevano pensato giustamente che i voli del ricognitore tedesco su Villa Weber nascondessero qualcosa di poco piacevole, ed avevano deciso l'ennesimo trasferimento.
Il 27 agosto, proprio il giorno prima dell'attacco previsto da Skorzeny per la liberazione del dittatore deposto, un idrovolante della Croce Rossa aveva lasciato le acque della Maddalena con a bordo il prigioniero: destinazione ovviamente ignota. Non restava che annullare l'incursione nell'isola. Rientrati a Roma ormai la tattica delle finzioni tra paesi raggiungeva l'apice: in Sicilia era stato firmato segretamente l'armistizio di Cassibile e Pietro Badoglio aspettava solamente il tempo necessario a far sbarcare gli Alleati nel resto della penisola. D'altra parte i tedeschi reggevano il gioco mentre le truppe tedesche circondavano già Roma essendo disposte sulle colline.
Skorzeny riprese a tessere la sua tela. Herbert Kappler, un alto ufficiale delle SS, venne a sapere da un messaggio cifrato che attorno al Gran Sasso erano state "ultimate le misure di sicurezza": firmato Gueli; le spie tedesche dicevano che Gueli era il nuovo funzionario responsabile della sicurezza di Mussolini. La notizia interessò Skorzeny il quale si gettò sulla pista, che si rivelò proficua: sull'altopiano del Gran Sasso chiamato "Campo Imperatore" era stato costruito di recente un centro di sport invernali, il cui albergo era raggiungibile solo tramite la funivia che parte da Assergi; un luogo dunque, l'altopiano, difficile da raggiungere e facilmente difendibile, con i requisiti necessari per custodire un personaggio dell'importanza di Mussolini.
Bisognava ora avere delle prove: queste vennero dal tenente medico Leo Krutoff, il quale fu incaricato di recarsi a Campo Imperatore per un sopralluogo, con la scusa di dover organizzare la convalescenza nell'albergo di soldati tedeschi malati di malaria (questo fu almeno quanto viene detto all'ignaro ufficiale medico). Krutoff però, quando giunse nel paesino di Assergi per prendere la funivia, fu bruscamente bloccato da alcuni carabinieri che gli spiegarono che la zona del Gran Sasso era stata dichiarata "zona militare"; quindi era impossibile salirvi. Era quanto voleva sapere Skorzeny, che decise di sorvolare la zona con un ricognitore, scattò delle foto con una macchina manuale (quella dell'aereo si era inceppata) e si trovò davanti le immagini dell'albergo con una sola, minuscola porzione di terreno piano attorno. All'atterraggio i tedeschi planarono su un campo appena devastato da un bombardamento alleato e poterono salvare solo pochi oggetti dai loro appartamenti in fiamme. Ma nella serata scoprirono dalla radio che l'Italia si era "arresa" e la notte stessa gli Alleati erano sbarcati a Salerno.
L'operazione Eiche ora poteva essere condotta con la certezza che, quand'anche fosse andata male, Skorzeny non sarebbe stato sconfessato. L'Italia ora era zona nemica, ma Campo Imperatore sembrava davvero irraggiungibile. I paracadutisti si sarebbero sfracellati sulle rocce, da Campo Imperatore avrebbero potuto tagliare facilmente la funivia per isolare così di colpo la zona da un attacco via terra. L'unica speranza era quella piccola porzione di terreno accanto l'albergo. Un audace piano previde dunque l'atterraggio sul pianoro di alcuni alianti con un centinaio di paracadutisti: impresa rischiosissima data la natura accidentata del terreno, ma l'unica possibile. La sera prima dell'azione la radio alleata comunicò che Mussolini era stato consegnato loro dagli italiani. Skorzeny rimase senza fiato, poi pensò al luogo dov'erano all'ancora le navi italiane: non c'era stato il tempo materiale per un'azione di quel genere, la trasmissione radio doveva essere uno stratagemma per fuorviare i tedeschi dalla tracce di Mussolini. A questo punto i tedeschi ruppero gli indugi e la mattina dopo diedero inizio all'operazione Eiche.
L'operazione scattò alle 3 antimeridiane del 12 settembre, quando una colonna motorizzata si mosse alla volta di Assergi. La partenza dei 10 alianti DFS 230 della 2. Fallschirmjäger-Division era prevista per le 12,30, ma venne anticipata di qualche minuto in quanto una serie di bombardieri alleati sorvolò l'aeroporto. Dato il limitato spazio a disposizione per l'atterraggio, sulle ruote degli alianti furono incastrati dei rotoli di filo spinato, per creare un forte attrito col suolo. Durante il volo, l'aereo di Otto Skorzeny, pilotato dal tenente Elimar Meyer, si trovò - dalla quarta posizione che aveva al decollo - a essere in testa alla formazione, dato che i primi tre aerei avevano virato e si erano accodati alla formazione.
Appena arrivati sopra l'albergo, i tedeschi videro i soldati italiani, che consideravano loro nemici, accennare qualche cauto saluto e, dopo l'atterraggio, mostrare piena indecisione nel decidere se arrendersi o combattere, consentendo ai primi tedeschi di gettare in un dirupo qualche moschetto sottratto agli italiani. La liberazione del prigioniero fu condotta perfettamente, infatti avvenne - sorprendentemente - senza che venisse sparato un solo colpo. Skorzeny ebbe infatti l'idea di portare con sé il generale del Corpo degli agenti di polizia Fernando Soleti che, facendosi riconoscere dai carabinieri che presidiavano la fortezza sul Gran Sasso, intimò loro di non sparare. I soldati italiani restarono totalmente disorientati dalla presenza del generale. Alla sua vista lo stesso Mussolini, che si era affacciato alla finestra, disse: "Non sparate, non vedete che è tutto in ordine? C'è un generale italiano!".
Skorzeny si fece avanti per essere il primo a vedere Benito Mussolini, arrivò alla porta della camera del Duce che aveva visto in terrazza e spinse via un soldato che, ignaro, lo aveva preceduto. Fu Skorzeny a salutare per primo Mussolini, nonostante si fosse accordato con Student di rimanere solo un "consigliere politico". Dopo la prima ondata, arrivarono altri alianti: un soldato italiano sparò due colpi, ma senza ferire nessuno. I tedeschi sistemarono la radio sul tetto dell'albergo. Dalla radio venne dato il segnale che l'albergo era in mani tedesche, il "Duce d'Italia" era vivo e non c'erano vittime.
Se sul rifugio non ci fu praticamente nessuna reazione da parte italiana, ad Assergi persero la vita due soldati, eroi quasi sconosciuti, gli unici che non si sottrassero al loro dovere in quella circostanza: la guardia forestale Pasqualino Vitocco aveva cercato di avvisare i carabinieri della presenza della colonna tedesca ed era stato liquidato con una raffica di mitragliatrice, dopo che gli era stato intimato l'alt. Morirà il giorno dopo all'Ospedale Civile dell'Aquila. La seconda vittima fu il carabiniere Giovanni Natali che, di guardia nella stazione intermedia della funivia, visti arrivare dei tedeschi aveva iniziato a sparare ed era stato colpito a morte. Il maggiore Harald-Otto Mors, il vero comandante dell'operazione, soddisfatto per il suo felice esito, raggiunse l'Albergo in quota con la funivia. Dopo aver dato fuoco agli alianti, i tedeschi festeggiarono con gli italiani brindando con del vino.
Dopo qualche foto, Mussolini doveva ripartire con il capitano della Luftwaffe Gerlach su uno Storch (cicogna), aereo a decollo e atterraggio breve, portato sull'altipiano dallo stesso capitano. L'aereo poteva trasportare solo due passeggeri, soprattutto in partenza da una pista di decollo così corta, per questo ne era stato previsto un altro per trasportare Skorzeny. L'aereo però non riuscì ad atterrare. Skorzeny, non si perse d'animo e nonostante il suo peso non indifferente, riuscì ugualmente a ottenere il permesso da Mors e dal pilota di poter salire sullo Storch, forse facendo pesare il suo grado o grazie a ordini "superiori" (il grado era uguale a quello di Gerlach, ma bisogna ricordare che Skorzeny apparteneva alle SS).

La pista era troppo corta così Gerlach, abile pilota, decise di far trattenere le ali dello Storch ad alcuni soldati fino ad aver raggiunto il massimo giro dei motori. Ad un segnale, lasciato libero, l’aereo scattò in avanti verso il burrone. Scomparve per qualche momento nell’abisso, ma poi lo si poté vedere da lontano mentre si alzava verso il cielo. Nella partenza, compiuta sull'altipiano roccioso, si incrinò un carrello e l'atterraggio ne risultò più arduo da compiere, ma non impossibile per l'esperto pilota. A Pratica di Mare, dove atterrò, Mussolini fu imbarcato su un Heinkel He 111 che lo portò a Vienna, e poi a Monaco: il 14 settembre, a Rastenburg, incontrò Hitler. Nonostante il rapporto di Mors, suffragato in tutto e per tutto da quello del generale Student, cui Hitler aveva assegnato il compito di liberare Mussolini, fosse riconosciuto come autentico e veritiero in tutte le fasi, e sin dagli anni cinquanta dagli stessi servizi segreti americani, Hitler diede invece il merito a Skorzeny, cui affidò in seguito simili e difficili imprese, che lo fecero conoscere come "L'uomo più pericoloso d'Europa".

fonte dati: wikipedia.