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domenica 12 giugno 2016

Lager Lechfeld, perdersi e ritrovarsi ad onorare e ricordare.... "vieni, vieni o Emmanuele!"


Quella mattina iniziò come le altre di quell’estate torrida del 2015, ero in Germania, lungo la Romantische Strasse, la tappa di quel giorno era Friedberg a circa 150 km dal punto dove mi trovavo.
Il viaggio tra le colline della Svevia era un susseguirsi di emozioni medievali, borghi incantati, fattorie, torri e campi coltivati.
Nei silenzi di quelle valli, tra nubi bianche nel cielo ed ombre tra i campi arati che creavano chiaroscuri che correvano in terra come le nubi nel cielo, mi fermai per constatare che mi ero perso, ma non ero mai stato così contento di aver perso la via.
La strada che percorrevo era un disegno, quasi un gioco fatto con la grafite di una matita nella mano di un pittore impressionista.
Arrivai senza meta ad un bivio, nel silenzio più assordante; alla mia destra un aeroporto militare, nell’afa di agosto, ed un cartello stradale: Lechfeld che indicava una strada lunghissima perpendicolare all’aeroporto.
Il nome mi ricordava qualcosa, ma non era ben definito nella mente, era più un richiamo, una voce da dentro che diceva “segui il cartello” e voltai.
Feci circa 100 mt e trovai sulla mia destra i segni evidenti di un cimitero di guerra; parcheggiai e mi diressi verso l’ingresso.
Un piccolo viale di pietra ed un cancello di ferro battuto erano il mio orizzonte, una piccola chiesa, bianca candida ed un grande albero con sotto una panchina in ferro, facevano da cornice a quel luogo di pace.
Arrivai al cancello e lo aprii piano, per il timore che rompesse il silenzio di quel momento; pochi passi ed arrivai al grande prato coperto di croci nere, esili, quasi non volessero creare offesa alla terra, restai li in silenzio, come spesso mi accade quando vado ad onorare tutti i soldati che sono caduti in guerra; vittime, prima ancora di partire, prima ancora di combattere.
Pochi passi ed entrai nella chiesa, dove una scritta, in alto, rubò la mia attenzione:

“den 2026 toten der beinden weltkriege die hier ihre letzte ruhe fanden”
“2026 morti delle due guerre mondiali hanno trovato qui la loro ultima dimora”

Tornai all’esterno e restai abbagliato dal sole, avendo ormai le pupille regolate sulla luce della piccola chiesa, cercai quindi riparo sotto un albero e fui attratto dalla croce russa ortodossa al centro del grande prato, in un una zona priva di croci nere, quel luogo era particolare, iniziavo ad avere la percezione di essere stato invitato dalla storia, di aver ricevuto un regalo, che le emozioni di quel pomeriggio assolato d’agosto le avrei portate con me per tanto tempo.
Accesi il Tablet e mi collegai con il mondo rimanendo nella penombra dell’albero per capire meglio dove mi trovavo e cosa avevo intorno, quale terreno sacro stavo calpestando, quale aria stavo respirando.
Lager Lechfeld è un angolo di Germania tormentato da guerre e prigionie.
La battaglia di Lechfeld (10 agosto 955) segnò la fine delle incursioni dei Magiari o Ungari in Europa centrale, grazie alla vittoria decisiva dell'esercito del capo germanico Ottone il Grande sul leader militare magiaro, il gyula Bulcsú e i suoi luogotenenti Lehel e Súr.

Nella storiografia ungherese la battaglia è annoverata come "battaglia di Augsburg".

La battaglia pose fine a decenni d'incursioni magiare che avevano evidenziato l'incapacità dei sovrani germanici di stirpe carolingia di essere re di fatto e non solo di nome.
L'uso di macchine d'assedio da parte dei magiari contro le mura di Augusta l'8 agosto e il 9 agosto manifestò l'adozione da parte degli invasori di tecniche di assalto di stampo occidentale e la caduta della città avrebbe segnato una nuova e più cruenta fase delle loro scorrerie, poiché nemmeno le città fortificate sarebbero più state al sicuro.
Ottone montò il suo accampamento nei pressi della città e unì le proprie forze a quelle del morente Enrico I Duca di Baviera ed a quelle del duca Corrado il Rosso, con il suo largo seguito di cavalieri franconi. L'arrivo inaspettato di Corrado infiammò i soldati che manifestarono la volontà di combattere quanto prima; il ritorno del duca esiliato di Lotaringia fu salutato con entusiasmo anche perché, durante il suo periodo di esilio, il figliastro di Ottone aveva stretto alleanza proprio con i Magiari, ma era ora tornato a combattere sotto le bandiere dei Germani. Avrebbe perso la vita nello scontro che seguì. Una legione di svevi era giunta sotto il comando del duca Burchard, che aveva sposato la nipote di Ottone. Sotto le insegne di Ottone combatté anche Boleslao I di Boemia, oltre a 3.000 guerrieri sassoni alle dirette dipendenze di Ottone.
 Al comando dei suoi vassalli e dei suoi alleati, Ottone aveva raccolto intorno a sé un esercito forte di almeno 10.000 unità di cavalleria pesante per fronteggiare un esercito nemico di almeno 50.000 unità di cavalleria leggera. Ottone sperava che i suoi cavalieri, pesantemente corazzati e ben armati, avrebbero avuto la meglio sulla cavalleria leggera avversaria. Infatti la tecnica militare dei Magiari era molto simile a quella degli Unni e dei Mongoli: prevedeva di evitare lo scontro diretto, tormentando gli avversari da lontano con lanci di frecce, approfittando poi di qualsiasi apertura nello schieramento nemico.
Ottone si mosse sul terreno accidentato disponendo i suoi uomini in una lunga colonna, divisa in reparti a seconda della nazionalità. In testa furono schierati 3 reparti bavaresi, seguiti dai franconi e poi dai sassoni dello stesso Ottone. Nella retroguardia furono posizionati 2 reparti di svevi e un contingente di boemi, che avrebbero dovuto difendere le salmerie. Durante il cammino la colonna fu attaccata alle spalle dai Magiari, che colsero di sorpresa e misero in fuga boemi e sassoni.
A questo punto le truppe tedesche si trovarono accerchiate, ma la disorganizzazione degli ungari giocò in loro favore. Questi, infatti, si misero a saccheggiare i carri invece di chiudere in una morsa letale i germani. Ottone colse l'occasione al volo e inviò i franconi in retroguardia: i magiari, smontati da cavallo, furono investiti e massacrati. Con la retroguardia protetta Ottone schierò le truppe in una lunga linea davanti al centro delle forze ungare. Suonò la carica e si lanciò contro il nemico con i suoi cavalieri. Mentre i cavalieri galoppavano contro gli avversari si dice che Ottone abbia urlato: «Ci sono superiori in numero, lo so, ma non hanno né le nostre armi, né il nostro coraggio. Sappiamo anche che essi non hanno l'aiuto di Dio, e questo ci è di grandissimo conforto!» (Guttman, Survival of the Strong). Poco prima dell'impatto i magiari scagliarono un pioggia di frecce che colpì solamente le corazze e gli scudi tedeschi, e prima che potessero essere in grado di ripetere il lancio furono investiti dalla furia dei germani. Come previsto da Ottone, la forza dei suoi cavalieri ebbe la meglio sugli avversari che fuggirono, rompendo lo schieramento.
Gran parte dei prigionieri di guerra vennero uccisi o rimandati in patria al cospetto del loro sovrano Taksony d'Ungheria con il naso e le orecchie mozzate.
Sul campo di battaglia i nobili germanici esultarono per la vittoria e sollevarono sui loro scudi Ottone proclamandolo loro Imperatore. Alcuni anni dopo, ancora forte di questa vittoria, Ottone si recò a Roma e si fece incoronare dal pontefice stesso. Nel frattempo i magiari si convertirono al Cristianesimo. Le incursioni ungare in Europa potevano dirsi concluse.
La Legio Regia portava come stendardo la bandiera dell'arcangelo Michele e, dato l'esito positivo della battaglia, San Michele divenne il patrono principale del Sacro Romano Impero Germanico (e in seguito della Germania).

Nel 1870 Lager Lechfeld vide una nuova guerra, quella Franco-Prussiana, in tedesco Deutsch-Französischer Krieg, in francese Guerre Franco-Allemande o Guerre Franco-Prussienne) fu combattuta dal 19 luglio 1870 al 10 maggio 1871 tra il secondo Impero francese (e dopo la caduta del regime, dalla terza Repubblica francese) e il Regno di Prussia, sostenuto dalla Confederazione Tedesca del Nord e alleato con i regni tedeschi del sud di Baden, Baviera e Württemberg.

Il conflitto segnò l'esplodere della tensione tra le due potenze, andata accrescendosi in seguito al fallimento del progetto di Napoleone III di annessione del Lussemburgo, evento che causò la fine di un rapporto relativamente bilanciato con la Prussia di Otto von Bismarck. I contrasti si erano fatti più accesi a causa della crescente influenza, per nulla tollerata da Parigi, esercitata dalla Prussia sugli Stati tedeschi a sud del fiume Meno, appartenenti alla ex Confederazione germanica e del ruolo guida prussiano esercitato all'interno della Confederazione della Germania del Nord, creata nel 1867 dopo la vittoria prussiana nella guerra contro l'Impero austriaco.
La guerra franco-prussiana fu il più importante conflitto combattuto in Europa tra l'epoca delle guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale e si concluse con la completa vittoria della Prussia e dei suoi alleati. La conseguenza più rilevante fu la creazione dell'Impero tedesco, che mantenne un ruolo di grande autorevolezza nelle relazioni politiche internazionali dei decenni successivi. La débâcle francese determinò anche la fine del secondo Impero di Napoleone III e, con il crollo di questo, la temporanea subalternità del ruolo francese rispetto alle altre potenze del consesso europeo.
La guerra franco-prussiana ebbe 474.000 prigionieri, in parte reclusi a Lager Lechfeld.

Nella prima Guerra Mondiale, Lager Lechfeld ricevette moltissimi prigionieri dai vari fronti ed in particolare dopo Caporetto, con una parte dei 280.000 prigionieri Italiani, che vissero in condizioni disperate, affamati dai Tedeschi, che stavano subendo l’accerchiamento delle forze avversarie e dalla stessa Patria.

“Della prigionia dei soldati italiani non si trova quasi traccia nelle pubblicazioni militari. Men che meno in letteratura o testi scolastici. Quand'anche se ne accennasse, non indicano il numero e le condizioni di quanti morirono in prigionia. Delle terribili condizioni di vita ci sono giunte notizie dai diari dei sopravvissuti e dalla Relazione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti (1920). Solo recentemente ha rivisto la luce il saggio di Giovanna Procacci "Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra" Ed. Bollati Boringhieri Torino (2000) ed altri annunciati. La legislazione che regolava questo status era quella dell'Aja (1899-1907) che prevedeva per il prigioniero vitto, alloggio, decade (paga) e esenzione dai lavori. Per gli ufficiali era persino prevista, sulla parola, la libera uscita !!! oltre allo stipendio normale, in pratica una pacchia. L'Italia non accettò quest'ultima clausola (in reciprocità). Era dal tempo della Rivoluzione Francese che moltissimi comportamenti, nel campo della detenzione, erano stati smantellati (prima c'era stato il "Dei Delitti e delle Pene" di Beccaria). Dal supplizio alla schiavitù, dai lavori forzati al riscatto, queste, prima erano state le condizioni. Con Caporetto caddero in mano Austriaca circa 350.000 Italiani che si aggiunsero ai circa 150.000 precedentemente già prigionieri e ne cadranno ancora col solstizio d'estate del 1918.”
 Con l'ultimo anno di guerra la cifra raggiunse le 600.000 unità (di cui 8.000 ufficiali). Fra la truppa oltre 100.000 morirono però di stenti e malattia (100.000=1/6), mentre fra gli ufficiali si scendeva a 1/15. La causa, anche se non primaria, era da ricercarsi soprattutto  nel comportamento del Comando Supremo e del Governo (e dal miglior trattamento riservato agli ufficiali dal nemico) che impedirono di fatto la spedizione dei pacchi o la ostacolarono adducendo le giustificazioni più fantasiose. Anche la commissione istituita a fine conflitto attribuì le morti alla volontà dei nemici di vendicarsi del tradimento italiano. Già dall'inizio del conflitto la massa dei prigionieri  da gestire (inusuale fino a quel momento) costituì un problema per tutte le nazioni belligeranti. Gli Italiani prigionieri finivano a Mauthausen , Theresienstadt (nomi divenuti poi tristemente famosi), in Moravia a Raabs, a Pilsen e Praga, in Slesia, in Ungheria e perfino in Bulgaria. La lista dei luoghi di lavoro poi si allunga oltre la nostra disponibilità di spazio quando il campo non era più tale ma un cantiere, un opificio, un bosco da taglio o fattoria che fosse.
Una prima cosa quindi esula dal dettame della convenzione Aja. Il prigioniero lavora e in questo caso supplisce almeno parzialmente al trattamento alimentare che il nemico non è in grado di dargli ma c'è un problema. Il blocco navale applicato agli Imperi Centrali aveva messo in seria difficoltà le scorte alimentari e la Croce Rossa fu avvisata del problema. Francia ed Inghilterra deliberarono di inviare ai loro concittadini prigionieri quantità sufficienti di cibo per integrare la misera dieta a cui erano sottoposti (le calorie a disposizione non superavano le 1.000 !!). Lo stesso fecero in supplenza dei Russi (la Russia, dalla primavera del 17, era in Rivolta) dei Serbi (La Serbia non esisteva più) per i loro uomini  in mano tedesca e austriaca. Gli Stati Uniti già in previsione della loro entrata in guerra avevano costituito magazzini in Svizzera da dove provvedere nel caso di loro connazionali passati alla prigionia. Al contrario l'Italia rifiutò qualsiasi intervento, lasciando solo ai familiari (singoli civili) e a organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa (notizie citate in censura e propaganda) il compito degli aiuti, salvo rare eccezioni e con ritardi talmente gravi che a inizio ottobre del '18 si discuteva ancora se e quando attuare scambi di prigionieri gravemente malati e feriti con la Germania (quelli con l'Austria erano iniziati nella primavera quando gli altri belligeranti l'attuavano già da tre anni). Si considera quindi che le morti in prigionia, anche per malattia che rientrerebbero in una normale casistica di decessi con alterazioni patologiche o incidenti, siano comunque dovute in gran parte a denutrizione e debilitazione."  
(brano tratto da Fiamme Cremisi)

A Lechfeld gli Italiani lavorarono, patirono la fame e morirono…. Quasi 100.000 furono alla fine della guerra i morti per fame.
Ed io ero lì, in quel luogo che vide tutti quei patimenti, da parte di Italiani, Russi, Inglesi, Francesi.
Le pagine del tablet scorrevano veloci, era come sfogliare un grande libro dei ricordi, sopiti, addormentati nel tempo, che di fatto si ridestavano dal loro sonno per tornare vivi e lucidi e raccontare di se.

Ne riporto alcuni;

Trasfigurati dalla fame
Mario Bosisio racconta fame, cibo, prigionia a Lager Lechfeld, Germania il 1917

Lager Lechfeld, ovest di Monaco di Baviera: così scorre la vita dei prigionieri italiani.

I molti giorni trascorsi in questa prigione non avevano potuto operare un mutamento profondo e radicale nei nostri animi, ma avevano però servito a creare un’atmosfera, se non concorde, almeno più calma e disciplinata. La distribuzione del pane al mattino era per noi l’avvenimento più importante della giornata. La ripartizione del pagnottone in dieci parti fatta da un capo squadra avveniva con un accordo ormai quasi perfetto… Ero molto contento d’essere stato eletto anch’io a tale carica onorifica… Tagliate le razioni con occhio destro e scrupoloso, si cercava di togliere le piccole eventuali differenze mediante una piccola bilancetta di nostra fabbricazione. Consisteva in un pezzo di legno conico, sottile, lungo non più di trenta centimetri, avente nella parte centrale una piccola funicella che serviva da braccio e alle due estremità un’altra piccola cordicella di dieci centimetri allacciata ad un cuneo di legno appuntito. Si infilavano le punte nella mollica del pane, ed aggiungendo o togliendo dei pezzetti si cercava il peso uguale. Finita l’operazione del peso (guai se si fosse  cercato di fare camorra) si allineavano le porzioni su un asse in un piattello di carta. A fianco si ponevano dei piccoli cartoncini numerati fino la dieci. Si prendevano altri dieci foglietti di carta ugualmente numerati e si mettevano piegati in quattro in un cappello. E qui il lettore certo immaginerà di leggere la conclusione con l’estrazione dei numeri. Invece noi, per aver diritto alla pesca del numero si doveva essere vincitori del gioco delle dita. Questa lungaggine ci permetteva di ingannare un po’ il tempo e la fame. Ed ecco in che consisteva il gioco: disposti in circolo si buttavano in avanti le dita della mano destra nel numero di nostro piacimento; poi il capo squadra fatta la somma delle dita distese, cominciando da lui contava intorno, fino al numero aggiudicato. L’indicato era il vincitore ed andava a pescare il numero della propria porzione. E così per eliminatoria fino alla fine. Ognuno se ne andava nel proprio angolo ben discosto dagli altri e non si metteva a mangiare prima di aver steso un pezzo di carta o di tela onde poter raccogliere tutte le bricciole che potevano cadere per terra.
Si divorava con occhi bestiali e guardinghi, temendo ancora che qualcuno non osservando, potesse giocarci il brutto tiro.Sembrerebbe impossibile che un uomo possa addivenire ad uno stato più basso degli animali! Eppure eravamo diventati così! Eravamo tali nonostante che il pane era orribile. Basti dire che la mollica schiacciandola perdeva l’acqua, e la crosta aveva la superficie tutta cosparsa di crusca. Credo che inganni nella ripartizione non ne potevano esistere, eppure ognuno di noi aveva sempre qualche reclamo da fare.
Quale rancore si teneva per quel tale che ci sembrava avesse avuto la razione più abbondante. E tutti i giorni era la solita storia schifosa e ripugnante.

Patate e Cazzotti
Mario Bosisio racconta fame, cibo, prigionia, nemici a Lager Lechfeld, Germania il 1917
Lager Lechfeld, ovest di Monaco di Baviera: è questo il nome di uno dei molti campi di concentramento in cui sono stati deportati i soldati italiani fatti prigionieri dopo la disfatta di Caporetto. È qui che Mario Bosisio lotta ogni giorno contro freddo e fame ingegnandosi per sopravvivere.
Una splendida mattina di domenica, ci chiamarono a raccolta, e, a mezzo dell’interprete, chiesero a chi si sentisse di lavorare, di fare un passo avanti. Tutti ci precipitammo avanti disordinatamente, tanto che i tedeschi ci respinsero col bastone per rimetterci in rango. Il lavoro che ci dovevano dare lo si era saputo dall’interprete. Si trattava di andare in  un campo li vicino per rimuovere il terreno già coltivato a patate e con raccolto già fatto, i tedeschi volevano dare una altra passata perché c’era molta probabilità di trovarne ancora.
Ecco il motivo per il quale noi avevamo voglia di lavorare. Erano le gustose kartoffel, come li chiavano i tedeschi, che ci attiravano. Ne scelsero una cinquantina, compresi noi manigoldi. Si passò sotto una buona scorta di sentinelle, armate di fucili, con baionetta in canna. Eravamo armati anche noi. Avevamo badili, picconi! Che contentezza! Nei campi c’era sempre la neve e la terra era molto dura per il gelo. Si doveva lavorare di piccone, e quando la punta di questo entrava nel terreno eravamo trascinati a terra per la poca forza che ci reggeva sulle gambe. Si proseguiva sostenuti ancora dalla speranza ….Movendo il badile, venivano a fior di terra molte patate che mettevamo nei sacchi o nelle ceste di vimini che già erano collocate sul posto. Mentre si lavorava, di quelle piccole si faceva una sola boccata. Mangiare le patate crude, al palato era sgradevole, ma la smania di masticare qualcosa era tanta che andavano giù lo stesso.
Tutti indistintamente avevano forata la tasca interna della giacca e una buona parte delle kartoffel erano andate a finire nel fondo della giubba per tutta la circonferenza del corpo.
I tedeschi avevano visto le nostre mosse ma avevano lasciato fare, e noi eravamo contenti pensando che in baracca le avremmo cucinate e poi introdotte nelle nostre povere pancette semivuote. Ma ritornanti all’accampamento ci misero tutti in lunga fila e due soldati ci fecero la perquisizione. Dovemmo levare le giacche che rovesciarono; le belle e care patatine ritornarono nella neve gelata. L’interprete scrisse su di un taccuino il nome di ognuno, e prima di congedarci i due tedeschi ci regalarono quattro pugni. I nostri compagni che avevano assistito allo spettacolo dal trattenersi dal ridere a crepapelle, ed ognuno di noi che entrava in baracca doveva subire motteggio continuo. Oltre il lavoro faticoso ed i pugni dei tedeschi, avevamo anche lo scherno dei nostri compagni, che per fortuna non erano stati scelti. Scornati di tale avventura, non avevamo parola per difenderci. E non sapendo cosa fare ci sdraiammo sul legno duro a contemplare il soffitto in aspettativa del rancio meschino.
LA GRANDE GUERRA 1914-1918
I diari raccontano
L’Espresso e Finegil editoriale con l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano

Trovai inoltre un documento in cui si parlava del Nunzio Apostolico Eugenio Pacelli ed il Cardinale Pietro Gasparri e della loro visita il 21 ottobre 1918 al campo di prigionia di Lechfeld, Germania.

Questo è l'archivio: www.pacelli-edition.de/quellen_dokumente.html

 "Oggetto: Ringraziamenti dei prigionieri italiani del Campo di Lechfeld”

Eminenza Reverendissima,
Facendo seguito al mio rispettoso Rapporto N. 10172 in data del 22 corrente, ho l'onore di inviare qui accluse all'Eminenza Vostra Reverendissima due lettere degli ufficiali medici e dei soldati prigionieri degenti nel lazzaretto del campo di Lechfeld, colle quali esprimono al Santo Padre i sensi della più profonda gratitudine per la inesauribile di Lui carità a loro riguardo.
Chinato umilmente al bacio della Sacra Porpora, con sensi di profondissima venerazione mi pregio confermarmi di Vostra Eminenza Reverendissima
Umilissimo Devotissimo Obbligatissimo Servo
+ Eugenio Arcivescovo di Sardi
Nunzio Apostolico"
In allegato ci sono le lettere dei soldati e degli ufficiali, ecco quella di quest'ultimi:
"Permetta, Eccellenza, che rievocando ora nel raccolto silenzio della nostra prigionia la Sua Visita in questo campo, Le esprimiamo più che non potemmo fare a voce, tutta la nostra commossa gratitudine.
Dopo un anno di isolamento materiale e spirituale, la venuta di V. E. che insieme ci ha nobilmente recato la parola della Religione dei nostri maggiori e quella della Patria lontana, è stata di altissimo conforto, raffermando in noi la fiamma della Fede che ci aiuta a sopportare e a sperare.
La coscienza del nostro oscuro sacrificio, che pure è piccola cosa al raffronto di tutto il dolore che travaglia il mondo, ci fa guardare con fiducia l'avvenire in cui la divina grazia ci darà vita migliore in terra e compenso in Cielo.
Noi preghiamo l'E. V. di volere rendersi interprete presso Sua Santità di tutta la nostra viva riconoscenza per il paterno pensiero dei doni graditissimi e per la sua Apostolica benedizione.
Voglio intanto, Eccellenza – sperando in tempo non lontano di poter venirLa ad ossequiare in Roma nostra – accettare le espressioni del nostro animo grato, memore, e devoto.

Dell'E. V. obblmi
Dr Carlo Felice Zanelli, capit. medico
Grecchi Dr Luigi, capit. medico
Dr Salvatore [Attinà], capit. medico
Dr Pozzo Antonio – tenente medico
Dr Cesare Bellavitis, ten. medico
Dr Angelo [Vattuone] ten. medico
Dr Luigi Laghi S. Ten. medico
Dr Vittorio Giovetti S. Ten. medico"

Il primo firmatario è il Capitano medico Carlo Felice Zanelli che nel dopoguerra pubblicherà le sue memorie con il libro "L'Anima del Prigioniero". Ecco di seguito il suo ricordo di quella visita:

"Oggi hanno fatto fare il bagno e hanno mutato la biancheria ai prigionieri italiani, poiché viene in visita, dopo un anno, il nuzio apostolico Monsignor Pacelli.
Nel mezzo del campo del Block 2, i prigionieri si pigiano intorno a un palchetto coperto di frasche, ove il vescovo cristiano sale e parla ai compatrioti con voce piena di fede, di amore, di conforto. Quindi egli fa distribuire i doni del Papa (una scatola di carne e un pacchetto di cioccolata ad ognuno) e scende fra noi a conversare."
Nella seconda guerra mondiale Lechfeld era, oltre ad un lager, una base aerea da dove partivano i nuovi caccia a reazione ME262
L’aeroporto fu un obiettivo primario degli alleati e fu costantemente bombardato.
Chiusi il Tablet, era ora di riprendere il cammino su quel manto erboso morbido, volevo vederne tutti i particolari, assorbire tutti i messaggi che quelle mute testimonianze volevano offrirmi e fu emozione grande ritrovarsi davanti alla stele dei Rumeni, dei Francesi, dei Russi e degli Italiani.
Era un piccolo luogo, ma aveva in se le radici dell’Europa, quel sacrificio folle che nei secoli si è reso necessario per poter alla fine capire che possiamo vivere tra di noi in pace, ma forse oggi hanno travisato anche questo traguardo.
Chiusi il cancello senza fare rumore ed uscii di nuovo sul viale, tornai in macchina e prima di entrare diedi un ultimo saluto a quell’angolo di mondo dove uomini di tante nazioni hanno guardato per l’ultima volta il cielo chiedendo “perché?”

Tornai in macchina, misi questo brano a tutto volume e tornai a cercare la mia strada per Friedberg, dove arrivai in serata.





































Se sei arrivato fino qui, vorrei farti vedere e ascoltare questo brano, io lo dedico a tutti i morti di Lechfeld, per la fame e per la guerra, su tutti i fronti, con tutte le bandiere, con tutti gli ideali.

Titolo; Vieni, vieni, o Emmanuele (Gesù) forse la richiesta che tanti hanno fatto dalle finestre del lager osservando le nuvole correre nel cielo a nascondere il sole e le ombre dei loro corpi.

ciao.

blogger

O Come, O Come, Emmanuel





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