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domenica 16 febbraio 2014

Memorie di un celoviek Bersagliere: Capitolo 7


Di che nobile carta le carte proletarie: due articoli per L’Alba
 I prigionieri, in questo periodo di fervore educativo collettivo, vengono sollecitati a ravvivare con opere, azioni, scritti e intenti il movimento di rinnovamento culturale che è sbocciato nel Campo, purtroppo non più tanto affollato. Più che sollecitati, per dire il vero, assillati. La Scuola 27 di Mosca, i campi di rieducazione, i colloqui democratici e interrelazionari divengono per molti un incubo pari alla fame. Più dei russi dalle mostrine azzurre e dalla visiera tipo pensilina (Nkvd), sono insopportabili i fuoriusciti nostrani e i ravveduti improvvisati. Quei famosi nomi degli astri nascenti, in questa fase storica di rinnovamento, sono più noti di Attila, Alboino, Erode, Nerone e Genghiz khan compreso.
Anche al c.b., oltre che di firmare appelli e petizioni, mai firmati ma a che prezzo, viene chiesto più volte di concorrere al rinnovamento culturale con articoli, recensioni, scritti da pubblicare sull’Alba, sempre più radiosa ed asfissiante. Ma che cosa scrivo, su che argomento mi cimento, come dialogo se sono tutt’ora ancorato alla decrepita e moribonda cultura che mi ha educato e non sono in grado di calarmi nel nuovo, che par bello, anzi più bello ma non convince affatto, per niente? Un compaesano del c.b., un bolognese, già addentro alle segrete cose perché da subito dedito anima e corpo al nuovo credo marxista-leninista e staliniano, fa sapere indirettamente, ma poi mica tanto, al reazionario celoviek che sarebbe un grande “merito più che meritevole”, scrivere un articolo per L’Alba su un tema di attualità per domani: “Scuola e democrazia”, oppure “Una nuova scuola per il popolo che educhi le nuove generazioni alla democrazia progressista e al sorgente ordine social-comunista che sta per essere instaurato in Italia e nel mondo”.
Scrivere qualche paginetta sull’argomento suggerito, e per premio ricevere una assoluzione di parte dei peccati ideologico-comportamentali accumulati, non è un’impresa impossibile e da sottovalutare - pensa tra sé il c.b. - Il bello però è come fare a scrivere non ciò che uno pensa, ma quello che pensano gli altri, cioè la nomenklatura, la quale, generalmente, anzi sempre, oltre che pensare a sé stessa pensa per tutti, ch’è poi come dire per nessuno. Questo è il vero problema, l’arduo compito! No. No. Meglio lasciar perdere, non si sa mai; in questo strano, immenso paese una persona di solito sbaglia stando zitta e non facendo niente; figuriamoci poi se intende dire o fare qualcosa, addirittura scrivere. Svanisce così l’ardore giornalistico, la gioia del parziale perdono e a modico prezzo, l’ansia del conoscere non disgiunta dal fare.
Una certa sera, sempre di un giorno qualunque, una vocina peregrina, nata dal nulla portata da una folata di vento, annuncia al c.b. e ad alcuni fidati amici che diversi prigionieri, intenzionati e desiderosi di partecipare al risveglio cultural-educativo, oltre ad aver ottenuto il permesso di frequentare la biblioteca hanno anche ricevuto in dono carta e matita per scrivere, come a scuola. Qualcuno, inoltre, dice che molti dei volumi in dotazione al palazzo della cultura, i soliti, immancabili mattoni portanti di una biblioteca progressista - Lenin, Marx, Stalin, Hegel, ecc., rilegati in maniera se non lussuosa almeno più decente delle edizioni popolari - hanno, all’inizio e alla fine del testo, alcune pagine bianche di carta patinata, lucida, con le quali si potrebbero costruire delle bellissime carte da gioco. Aspirazione insoddisfatta, questa, e di tanti prigionieri che, sopravvissuti alla morìa del tifo petecchiale, non sanno come alleviare ed ingannare la fame, la noia, l’apatia, l’ansia e la disperazione di quel vuoto e lungo tempo senza tempo che è la vita che si trascorre nel lager.
In proposito, foglietti di carta nera e spessa che sostituivano i vetri rotti di alcune finestre, sono stati da tempo razziati e nascosti ben bene da ignoti reazionari sabotatori della patria socialista. Se si riuscisse ad ottenere una decina di pagine di carta bianca patinata da incollare sul cartoncino già reperito, si potrebbe costruire uno splendido mazzo di carte da fare invidia alle nostre Modiano. Quelle attualmente in uso, costruite artigianalmente dopo mesi e mesi di ripetitivo, lungo lavoro di limatura contro un lastrone di ardesia per trasformare alcuni tronchetti di bianca betulla in piccole, sottili tavolette dipinte coi disegni e i semi similari alle civili carte da ramino, un poco ingombranti per la verità ma che avevano assolto degnamente il loro compito nel primo periodo medioevale della prigionia, ora che nel Campo sta sbocciando il rinascimento potrebbero trovare degno riposo come cimelio da lasciare in eredità ai posteri ed essere sostituite da più decenti oggetti. Le carte-tavolette, pur essendo abbastanza sottili di spessore, rappresentavano un grosso problema quando, strette in una mano dopo la distribuzione, si dovevano spillare per vedere cosa la cieca fortuna ci aveva assegnato e di conseguenza impostare la strategia di gioco. Se poi la sfida, o partita, era a poker, l’ebbrezza di veder uscire a poco a poco un tris d’assi o una scala reale (anzi, no, meglio proletaria per star tranquilli) svaniva per il fatto che non era possibile far scivolare una tavoletta sull’altra; inoltre, spesso accadeva che il malloppo delle dieci carte, tenuto in bilico in una sola mano, cadesse per terra svelando in tal modo agli avversari quali carte lo sfortunato giocatore possedeva e di conseguenza fortuna e sfortuna, ansia o indifferenza, gioia o tristezza erano rimandate alla mano dopo con immancabile getto di adrenalina in circolo.
Nel lager la colla necessaria alle varie necessità non costituisce un problema perché quella ricavata da briciole di pane macerate nell’acqua è stata da tempo collaudata con successo. Disegnatori raffinati ce ne sono alcuni tra gli scampati; i colori, rosso e nero, si ricavano facilmente da erbe che nascono nel cortile di fronte al caseggiato; manca il più, cioè la carta patinata. Quei fogli bianchi dei testi sacri appaiono spesso nei sogni e nelle fantasticherie di molti celoviek. Per ottenerli è necessario anzitutto frequentare la biblioteca; avere il coraggio di strapparli dai volumi; esaminare con pura incoscienza l’eventuale pena comminata ai sabotatori dell’Urss in caso di tentativo andato a male. E chi osa? A chi può venire in mente di rischiare tanto? Chi si sente di affrontare la fucilazione, fisica no, ma politica senza dubbio, magari con soggiorno obbligato in un lager siberiano? Mah! E chi lo sa? Chi vivrà, vedrà.
Il tempo senza tempo trascorre come di consueto nel Campo; poi, in un pomeriggio inoltrato, verso l’imbrunire il c.b. dopo il solito, interrelazionario colloquio con i pedagogisti nominati d’ufficio, durante il quale ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie (espressione in uso nel mondo capitalista e non nei paesi socialisti; infatti i celoviek di camicie ne posseggono a mala pena una, cioè quella che indossavano il 21 dicembre del ’42, peraltro consunta ma che tutti sperano possa resistere all’usura e al tempo per qualche anno ancora) per poter dimostrare agli eruditi inquisitori che non è un reazionario o un borghese; ingoiare grossi rospi, ranocchi e bocconate di fiele per convincere i docenti che non è ancora pronto per portare il cervello all’ammasso e inoltre far loro capire che oramai le roteanti palline, logore e consunte stanno per esplodere; finita la improduttiva, sterile, stupida discussione sta rientrando avvilito, stanco e soprattutto arrabbiato come un cane idrofobo fra gli amici. Il suo volto è scuro; le risposte che escono dalla sua bocca brevi e dure. Si siede sul pagliericcio, resta per un po’ muto e poi con forza e fra lo stupore generale, sbotta:
“Popolo, domani chiederò al nostro nume tutelare di poter scrivere qualche articolo per il giornale della redenzione; in tal modo avrò accesso alla biblioteca, apprenderò un nuovo sapere, aggiornerò la mia vecchia cultura, mi sentirò figlio del popolo socialista e, infine, otterrò qualche straccio di carta e una matita per scrivere le memorie, e poi... e poi buonanotte al secchio”.
Gli amici pensano bene di non fare commenti perché, ben conoscendo il carattere scontroso del c.b., non desiderano essere spediti in qualche girone di dantesca memoria. Passano alcuni giorni di quiete poi l’impegno del c.b., che a prima vista pareva scherzoso o di rabbia, si avvera. I duri stentano a credere in un improvviso ravvedimento di un duro; i convertiti ostentano una malcelata soddisfazione e azzardano sorrisini di compiacimento; i più, cioè quelli che non assumevano mai posizioni nette e chiare (anzi, spesso e all’occorrenza rispondevano con un sì, assicurando subito dopo di aver detto no in analoga situazione), manifestavano dolore conversando coi primi, simpatia coi secondi, mentre coi terzi i commenti erano inutili.
Il c.b., insensibile a tutti e a tutto, avanza imperterrito verso gli orizzonti del nuovo sapere. Che carta, gente, quella dei testi sacri! Che carta, per carte, popolo! Due pagine all’inizio dopo la copertina di grosso cartone rosso come un tramonto infuocato e prima del titolo stampato a caratteri cubitali, color oro; due alla fine del libro prima dell’indice; quattro fogli in tutto bianchi come la neve, lucidi anche nel voluminoso Capitale di Marx. Belli, bellissimi. Nella sala, o stanzone, della biblioteca del popolo parecchie panche, qualche tavolo sparso qua e là e alle pareti due grandi ritratti di Lenin e di Stalin e manifesti, manifesti su tutte le pareti e tutti rossi come il sangue venoso. I frequentatori, non troppi ma tutti studiosi, seri, simili a statue fuse nel bronzo e con i profili dei santoni indiani, sono indaffaratissimi. Chi consulta volumi o scrive appunti su temi socialproletari; chi elabora piani per la guerra di liberazione; un gruppetto evoca rivoluzioni di masse e sommosse di popoli oppressi; altri, pensosi, si sorreggono il testone forse appesantito dai grevi concetti assimilati. Qualcuno, in fase di estasi, divora i best-seller del comunismo nostrano, i cui scrittori, al confronto con Dante, Leopardi, Pascoli o Petrarca, sono senz’altro migliori e più grandi, o per lo meno non certo più piccoli, insomma uguali.
E che silenzio dintorno; che ieratiche figure dentro! I rosseggianti manifesti appesi alle pareti ricordano scene raccapriccianti e apocalittiche di uccisioni di popoli; delitti di sterminio e genocidi di masse addebitabili agli altri; olocausti di patrioti, appelli, proclami, incitamenti alle rivoluzioni e alle lotte di liberazione. Quei cartelloni colorati ti martellano la vista, ti entrano nel sangue e nella mente, ti raggelano le ossa e le membra e gravano sugli uomini, le cose, tutto al pari di quella diabolica ideologia che riempie il rosso stanzone pieno fino all’orlo, anzi, che trabocca.
All’ingresso un po’ titubante del c.b., molti dei presenti lo squadrano di sottecchi con sguardi che è meglio non definire; il c.b. guarda tutti e tutto con una faccia inespressiva da ebete mongoloide e si dà senza esitazione al Capitale. Un noto attivista consiglia l’allievo reazionario a muovere i primi passi del nuovo sapere con lena e volontà, poi bofonchia:
“L’Alba attende un articolo, magari a puntate, su un tema che la nostra rinnovata Italia dovrà presto affrontare per il bene del popolo. Titolo: ‘Scuola e democrazia’; oppure: ‘La nuova scuola democratica e progressista che sostituirà quella tradizionale e borghese’. Hai capito, compagno?”
 “Certo, certo, mica sono scemo! Robette, queste, cose semplici e da poco, no?”
 “Ovvio; tu scrivi, poi il collettivo esaminerà il contenuto e se i concetti espressi saranno conformi al volere dei più, pubblicheremo l’articolo e tu diverrai uno scrittore del popolo lavoratore”.
 “E se i concetti da me esposti non sono condivisi da quelli del collettivo?”, chiede con malcelata apprensione lo scrittore in erba.
“Beh! Riscriverai un nuovo articolo finché non riuscirai a comprendere qual è l’interesse del popolo socialista”.
“Allora se non riuscirò ad essere un progressista convincente niente Campo 27, né Lubianka, da?”
“Per questa volta no, poi si vedrà”.
“Parola?”
“Parola”.
Sembra facile, si dice bene, ma non è mica semplice disquisire su un argomento scelto da altri e dire ciò che fa piacere a quelli e non ciò che fa piacere a chi scrive. Provateci, se vi riesce, e poi vedrete che faticaccia. Ma che razza di problemi nascono anche in un paradiso socialproletario dove la libertà e la democrazia regnano sovrane, o quasi! A guardarla, a toccarla quella carta per carte è sempre più bella e attira come un tozzo di pane. Frequentando la biblioteca per attingere al sacro sapere e scrivere per L’Alba sulla nuova scuola, che per la verità non mi passa proprio nella testa come dovrà essere, e con le doti di scrittore che non possiedo affatto, cercherò di dire meno fesserie possibili, conciliare l’utile col dilettevole, il serio col ridicolo e infine di farla franca nel caso che… che… Buon Dio, lasciamo ben perdere perché mi vengono i sudorini, le caldane tipo andropausa, le vampate mestruali al solo pensarci. Quindi, articoletto per il giornale, per l’aurora di domani, per L’Alba di oggi del reazionario bersagliere. Titolo: “Scuola e democrazia”. E avanti, Savoia! …
Il Corso, “flagello dell’Europa”, nel 1815 usciva umiliato dalla Storia che egli, nuovo demiurgo, per quasi un ventennio aveva plasmato come argilla, sordo alle proteste di essa, che uscita ormai dalla minorità, sentiva l’esigenza di guidarsi da sé. L’Attila moderno…
Stop, fine del compito, basta!
Mamma mia che roba che ho scritto; perdonami Iddio per i folli concetti esposti - sussurra a se stesso, inorridito, il c.b. dopo aver letto e riletto il malfamato articolo. - Vi immaginate cosa penseranno di me l’ideologo Robotti, il pedagogista Rizzoli, il migliore e il peggiore del partito di tutti i proletari, che stanno riunendosi nel mondo in una massa ricca di égalité, fraternité e liberté? D’altro canto, cari compagni, io di più e di meglio non so dire, va bene? No? Pazienza, questo è il mio articolo per L’Alba, l’aurora, il tramonto, per il popolo e per il partito dei lavoratori su: Scuola e democrazia o Scuola di Base. E basta così. Sta a vedere che ora mi chiameranno oltre che reazionario e fascista, anche un prodotto del Gentile o un sottoprodotto del Croce. Sì, sì, meglio lasciar perdere e non aggiungere niente a ciò che ho già scritto, ch’è fin troppo. Per stare sul sicuro, ora che ci penso, avrei potuto ricordare l’onnisciente tovarisc Popòv che qua in Russia ha inventato, scoperto e scritto di tutto e di tutti e che per ora non è stato ancora fatto fuori; infatti Pontieri36, in un recente colloquio interrelazionario, se lo è sentito sbattere in faccia almeno cento volte. Ma io dove lo sistemavo? All’inizio del discorso? Nel mezzo o alla fine? E no! Popòv o si mette dappertutto, o niente; come la senape e il prezzemolo.
Intanto il c.b. legge e rilegge sempre più perplesso le molte paginette scritte, quegli orribili concetti espressi che sicuramente anticiperanno le mestruazioni alla cellula del partito (figuriamoci poi all’apparato) e lima, lima e tornisce la forma per rendere almeno quella, sul piano sintattico e grammaticale, inattaccabile allo sguardo acuto e competente dei controllori di turno.
 - Pensate cosa accadrebbe se scrivessi una a, verbo avere, senza l’acca o con l’accento, oppure se mettessi un c al posto del q e viceversa? Che figura, popolo; che sorrisi di scherno del proletariato! Del contenuto poi meglio non parlarne più perché se sembra ridicolo all’autore figuriamoci come potrà essere il giudizio degli altri in genere, dei censori in particolare. Boh! Spes ultima dea; non resta che attendere con cuore saldo e con la mente vuota.
Nel frattempo, il neogiornalista o scrittore, durante il lavoro di erudizione e di ricerca alle varie fonti del sapere che sgorgano in biblioteca da una unica sorgente, ha accertato che i fogli, tre, del Capitale di Carlo Marx e quelli del Manifesto agli operai, ai soldati e ai contadini, due, di Lenin, misurano pressappoco 25 centimetri di lunghezza per 19 di larghezza; pertanto, se la memoria matematica non fa cilecca o brutti scherzi, considerato che in Italia le carte da gioco, ramino o briscola poco importa, sono lunghe nove centimetri e larghe cinque, ne consegue che da ognuno di quei fogli bianchi si potrebbero ricavare otto carte almeno, e senza eccessivo scarto. Per giocare a bridge, gioco all’inizio sconosciuto a molti, noto a pochissimi, maestro tutelare nel lager il caro, bravo capitano Cupidi Walter; gioco interessante ed entusiasmante, in breve tempo patrimonio di tutti i celoviek; oppure a poker sempre affascinante anche coi cip al prezzo di una mollica di pane, occorrono pressappoco 52-54 carte, più eventualmente due di riserva o per i jolly. Quindi per costruire un mazzo che si rispetti, tipo Modiano o Dal Negro, necessitano almeno sette fogli della predetta, impagabile carta patinata; mica pochi, però! A conti fatti ne mancano ancora due da scovare fra i testi sacri, poi si può partire con l’Operazione Placido Don, così battezzata nei malefici piani operativi del reazionario celoviek bersagliere.
Il manoscritto dell’articolo albeggiante, consegnato nelle mani sacerdotali del connazionale appartenente alla nomenklatura nostrana in gestazione avanzata, non ha tutt’ora destato temute, scomposte reazioni, né lodi auspicate; solo silenzio, invece. E per giorni e giorni nessuno dice alcunché al c.b. che sovente pensa a ciò che possono pensare le teste d’uovo che giudicheranno quegli avveniristici, sorpassati o ridicoli concetti espressi sulla scuola democratica o di base. Non resta altro che attendere, tanto più che qua il tempo non manca e non costa niente.
Nel frattempo, e in attesa del giudizio comminatorio o premiante e per altri fini meno culturali, il c.b. continua a frequentare assiduamente, un po’ meno però, la biblioteca e legge, caparbiamente legge Lenin e i suoi trentacinque volumi, circa. E legge con tanta intensità, con morbosa attenzione che anche al buio riuscirebbe a leggere. Potenza del marxismo-leninismo! La guerra e la socialdemocrazia, un foglio; Lettere ai membri del Comitato centrale, un foglio e... e... Basta! Basta con Marx, con Lenin, con tutti. Cinque più due fa sette; sette per otto uguale a cinquantasei: stop, Lenin kaputt, il bolscevismo pure, i proletari anche. Il momento più rischioso dell’Operazione Placido Don è quello che prevede il trasporto del chiodo affilato dal segreto ripostiglio alla biblioteca e viceversa, per effettuare il taglio dei fogli prescelti ed evitare così rumori sospetti da strappo che certamente metterebbero in allarme gli studiosi di turno e costituirebbero anche un sicuro indizio in caso di scoperta del vandalismo ideologico e, perché no, anche un tantino ignorantello.
Occhio, tovarisc; se ti beccano nel cortile con simile arma da guerra cartacea, ma sempre arma, una denuncia per insurrezione armata, o per tentato omicidio premeditato (e non preterintenzionale) di qualcuno magari da tempo morto di fame, oppure per complotto armato controrivoluzionario non te la cava nessuno - pensa spesso tra sé e sé il neofita scrittore. Ma poi, certo della sua buona stella che l’ha perfino salvato dal massacro democratico compiutosi nel lager di Suzdal’ tempo fa (prigionieri entrati nel Campo 2.800 + 933 provenienti da Oranki, rimasti dopo circa un anno 570 circa), decide di osare e portare a termine, alla faccia di tutti e di tutto, il malvagio piano che per la verità sa più di irrefrenabile dispetto, di sgarbo biasimevole che di... O gente, chi non sa che chi si accontenta gode? E qui a Suzdal’, da tempo ormai, sono in pochi a godere e magari alle spalle di altri, il che in realtà costa poco, anzi ci si guadagna qualcosa, ma non alle spalle dei russi, che costa troppo e caro. Alla fin fine, se il colpo andrà bene, chi se ne accorgerà dopo? Chi legge quei mattoni se non chi fa finta di leggere? E allora? Mah! Budiet carasciò... e... e avanti tutta.
I sette preziosi fogli, tolti dai testi sacri del bolscevismo internazionale, sono stati da diverse settimane gelosamente nascosti nell’attesa di essere utilizzati, a tempo opportuno, allo scopo.
E la vita nel lager riprese a scorrere monotona e triste come sempre. Quando gli esseri bestiali che animavano il Campo ritornarono a poco a poco ad assumere sembianze umane, ripresero a sbocciare gli inariditi sentimenti che distinguono normalmente gli uomini dagli animali, le comunità dai branchi: intelletto, ragione, dignità, fraternità, amicizia. Anche i cappellani militari, oltre che prigionieri, rivestirono i panni dei pastori e dei messaggeri di Dio. All’inizio indistinti anonimi fra la massa, poi, emergendo dalla grigia uniformità, i popi37, i preti, i padri. Dalle tenebre degli angoli bui e nascosti alla luce del giorno e tra la gente, riapparvero pure la croce, il calice, l’ostia consacrata, i riti della Chiesa: la santa messa, la confessione, la comunione e, non ricordo bene, se al tenente Fiore fu anche somministrata l’estrema unzione; no, non lo ricordo con esattezza. Allorché Don Franzoni38, Don Brevi39, Don Turla40, Don Bonadeo, Don D’Auria (detto scherzosamente don Ganascia; ma quanto in gamba e coraggioso, e duro)41 e altri cappellani (Don Alagiani scomparve e forse finì i suoi giorni alla Lubianka, o chissà dove42) ripresero a cantare gli inni del Signore, anche il celoviek bersagliere si riavvicinò alla Fede, mai persa, dimenticata spesso, e chiese al cappellano dei bersaglieri di confessarsi.
“Padre, ho peccato; ho violato un comandamento di Dio, ho rubato. È vero che ho rubato al popolo russo, e solo un’inezia, comunque sempre di furto si tratta”.
“Male, figliolo, male; anzi malissimo. Chiedi perdono al Signore, fratello, prima di accostarti alla santa comunione; il Signore ha detto di non rubare né in Italia, né in Russia, né altrove e mai. Se il tuo pentimento, come spero, sarà sincero, il buon Dio ti perdonerà. Per penitenza dirai un pater, ave, gloria; e ora vai in pace e non peccare mai più, il Signore sia con te”.
Quel peso che opprimeva la coscienza del celoviek, ma che gli procurava anche una immensa gioia, di colpo svanì perché, confessata la colpa, aveva ottenuto il perdono. Rabbrividiva però il tapino ogni qualvolta ripensava alla confessione. Vi immaginate, gente, cosa sarebbe successo se il confessore avesse chiesto:
“Cosa hai rubato, peccatore?”
E peggio ancora se avesse esclamato:
“Restituisci il maltolto”.
Brrrr... Che sfacelo, mamma mia che disastro! Ma forse il Signore ebbe pietà del misero voienni43, del povero prigioniero; e il carissimo cappellano Don Bonadeo pure. Un mistero però il c.b. riuscì mai a spiegarsi, e cioè questo: mentre confessava il peccato, con la faccia seria e la mente chiara, col cuore e l’anima sincere e l’intera persona compita e pentita come si conviene che ogni peccatore debba avere in cotali frangenti, non riuscì completamente a spegnere, nonostante la volontà, quel lampo di gioia che gli sprizzava dagli occhi, né a far sparire del tutto, nonostante gli sforzi faticosi dei muscoli facciali, quel sardonico sogghigno che gli increspava le labbra ogni qual volta ricordava l’insulto, lo sgarbo fatto a quegli inermi, sacri e inviolabili testi del vangelo rosso; sgarbo eseguito in dispregio alle norme dell’educazione borghese e proletaria e del rispetto della cosa altrui, del vivere civile. Ma a quel tempo e in quel luogo di Suzdal’ eravamo civili? Mah! E chi lo sa?
Dintorno al c.b. e al suo fervore culturale che lo anima nascono giudizi contrastanti: qualcuno s’insospettisce, altri manifestano stupore; molti, perplessi, e parecchi, dubbiosi pensano anche che uno dei duri del Campo si stia rammollendo o convertendo al nuovo credo; che cali le brache, insomma. A tutti il c.b. risponde con una alzatina di spalle o con un sorrisino da imbecille scimunito; oppure, e sovente, con una ipotetica messa a dimora dell’ombrello sul braccio destro, piegato ad angolo retto dal colpetto infertogli dalla mano sinistra semichiusa. Che soddisfazione si prova anche in questo modo, gente! Che bello pure il poco quando non c’è altro di meglio! Agli amici duri basta una strizzatina d’occhi per spiegare l’arcano.
Oltre un mese è trascorso dalla consegna del testo giornalistico senza che nulla sia accaduto in merito. Nel lager solita vita, fame in crescita, stesso incubo delle partenze improvvise; inedia, apatia, rabbia non difettano. Una sera, la solita sera di una serata qualunque, il c.b. viene convocato al palazzotto, o casotto della cultura. Due noti intellettuali di ritorno, un conosciuto ideologo in via di formazione, un colto fuoriuscito formatosi alla scuola social-popolare che già aveva sfornato il letterato Germanetto, autore del nobel russo e best seller del proletariato Memorie di un barbiere, siedono attorno ad un tavolo rosso sul quale L’Alba fa sfoggio di sé, Mario Correnti anche e Ercole Ercoli pure; i cinque foglietti del c.b. un po’ meno.
Impassibili come le statue dell’isola di Pasqua; severi come i membri del tribunale del popolo all’epoca del Terrore; ascetici al pari dei pubblici ministeri della santa Inquisizione, offrono con un gesto della mano una sedia all’esaminando che da un po’ troppo tempo sta in piedi e, sbuffando, guarda il soffitto, forse il cielo.
“Compagno, abbiamo letto, analizzato, cioè problematizzato il tuo scritto”, dice grave l’intellettuale seduto a destra.
“Cioè, si fa per dire che, insomma tutto sommato, cioè quasi quasi extrapolando la parte dal tutto e ricomponendo il tutto con le singole parti, cioè, in poche parole quella roba detta e scritta è puerile; cioè, come dire, che non serve affatto alla causa comune, cioè al rinnovamento culturale e progressista del popolo italiano, alla rivoluzione proletaria e al trionfo del socialismo prima e del comunismo poi”, sentenzia serio l’ideologo in via di formazione, stravaccato a sinistra.
I due commissari seduti al centro non aprono bocca ma scuotono le teste come i battagli delle campane quando suonano i rintocchi.
“Beh! Veramente speravo che qualche cosa, anche poche righe di tutto il compito fossero state condivise, ma se voi ritenete che non ci sia niente di buono, pazienza; mi dispiace anche, ma non posso fare niente di più. Ciò che ho detto e scritto è il meglio che il mio convento può dare; quindi, o prendere o lasciare. Tutt’al più posso fare un altro tentativo disquisendo su un nuovo argomento, magari scelto da me, comunque sempre rientrante nel nuovo corso storico che sta per iniziare. D’accordo?”
“D’accordo un bel niente”, sbotta con voce dura il fuoriuscito naturalizzato. “O scrivi per la rivoluzione e per il popolo o non scrivi affatto. Capito?”
Lo sguardo del c.b. spazia tutt’intorno, passa da un volto all’altro, poi si fissa sul viso dell’intellettuale che finora ha annuito ma non ha pronunciato parola alcuna e gli chiede:
“Amico, tu che certamente sei un profondo conoscitore, o quasi, dei principi filosofici che animano e fanno lievitare le società e i popoli di questo nostro vecchio mondo, e poiché son certo che sei uno dei pochi che conosci la filosofia...”
“Che? ... cosa? ... la che?”, interrompe con forza il fuoriuscito dello zoccolo duro.
“La philosophia, che si legge filosofia”, risponde seccato il c.b. e, rivolgendosi nuovamente all’intellettuale di prima, prosegue: “Dunque, amico, potrei trattare questa volta delle correnti filosofiche odierne per poi sfociare nella palingenetica apliterazione dell’io cosciente che, infiltrandosi nell’archetipo prototipo dell’antropomorfismo universale, porta al trionfo del socialismo, prima, del comunismo dopo. Va bene? D’accordo?”
“Sì, cioè non si può escludere che l’argomento non desti interesse, anche se complesso”, rispondono i due intellettuali; “Provare non nuoce, sempre che, cioè che il fine sia il bene dei paesi socialisti”.
Il fuoriuscito forse non ha afferrato in pieno l’argomento; tuttavia, certo che se porta al trionfo del comunismo va bene ugualmente, grugnisce:
“Tentiamo pure con la pilosopia, ma sia ben chiaro, come ultimo tentativo. Capito?”
Tutti concordano per l’ultimo tentativo e un das vidania, cioè un più o meno sentito arrivederci, suggella il patto giornalistico.
Intanto il tempo senza tempo continua a trascorrere inesorabile nel lager e nel mondo. Nella comunità solita routine, stessa vita; nessun fatto o misfatto eccezionale, né grosse novità di rilievo smuovono le acque torbide della grigia comunità prigioniera. Il c.b., che ha ormai cessato di frequentare la casetta della cultura, anche perché le carte sono già in stato di avanzata costruzione nei vari cantieri occulti del Campo, si arrovella il cervello per scrivere qualcosa di decente sulla pilosopia fuoriuscita. Che lavoro improbo a causa soprattutto degli scarichi neuroni cerebrali! Che consumo inutile di fosforo per portare a termine l’impegno, più orgoglioso che altro, preso da un povero tapino semianalfabeta con un gruppuscolo d’intellettuali di tutto rispetto, per i quali la verità, in verità, è soltanto la loro verità che è la sola che esista, giusta; pertanto non si può discutere perché è così, punto e basta! Già! Un argomento sempre affascinante e attuale potrebbe essere quello che esamina i contrasti e i tentativi di conciliazione, nel pensiero medioevale, moderno e contemporaneo tra scienza e fede. Bah! Io ci provo e poi si vedrà…

   Il dissidio tra scienza e fede, ignoto all’antichità, caratterizza e tormenta la civiltà cristiana. I sintomi di questa antinomia fra la ragione, organo del sapere scientifico, e il sentimento, organo della fede,…

   Basta, finito, chiuso; ho scritto anche troppo, detto ancor di più su questo argomento che a prima vista mi pareva interessante e culturalmente apprezzabile, ma che poi, a mente fredda, tra tutti quei santi e peccatori che s’incontrano leggendolo, potrebbe diventare ideologicamente pericoloso. Meglio lasciar scivolare la scienze, la fede, la ragione e il sentimento, tutto insomma ma ad una condizione: che non scivoli anch’io con loro - pensa con apprensione il cocciuto, irrecuperabile reazionario.

   E i dubbi sul giudizio che il collettivo culturale emetterà sul contenuto del compito, aumentano di giorno in giorno e ogni qual volta il neoscrittore del popolo rilegge la parte ed il tutto. Ben ben che mi vada mi prenderanno per un prete bigotto al servizio del Vaticano, e qua i preti, se qualcuno è ancora vivo, non hanno vita facile; oppure mi bolleranno come un velenoso cristiano riesumato in qualche catacomba e inviato all’Est alla evangelizzazione dei cristiani ortodossi, che attualmente sono impegnati a scavare il canale Mosca-Volga. Sarà quel che Dio vorrà, comunque non ci scommetterei una cicca su un favorevole giudizio dei censori. E se aggiungessi, come conclusione, che ormai la scienza sta per sconfiggere la fede… che il socialismo prima, il comunismo poi trionferanno sull’intera umanità, portando a tutti la più ampia libertà e la sola verità sotto il benevolo sguardo illuminato del grande Padre, Stalin… Ma chi lo sa! Poi è meglio non oltrepassare certi limiti, mica sono scemi del tutto, quelli.

   Forse è più saggio che faccia leggere il compito all’amico Sandulli, cattedratico in una università nostrana e già famoso a quel tempo, esperto inoltre di diritto, rispettato nel lager da tutti e considerato un uomo colto e integro; lui un parere me lo darà certamente e inoltre mi potrebbe consigliare se è il caso di sfrondare, sintetizzare, cambiare argomento o affrontare con tanta scienza e ancor più fede il responso del collettivo. Ci provo. I giudizi dell’amico cattedratico e di altri sono tragicomici e netti:

   “Ma che vuoi farti mandare alla Lubianka prima del previsto, incosciente? Ma chi te lo fa fare, cercatore di grane? E tu pensi che quei quattro bestioni vichiani capiscano qualcosa di ciò che hai scritto, povero illuso? A loro basterà leggere i nomi dei santi, di Dio e di Cristo o le parole fede, spirito e immortalità dell’anima per bollarti come eretico trotskista, come oppressore del popolo, come nemico del partito e della rivoluzione. Ma strappa quei fogli, usali e poi gettali, e cambia disco, ingenuo. Se proprio vuoi mantenere l’impegno preso coi guardiani della rivoluzione, scegli un argomento bucolico e tra le tante fesserie che puoi scrivere riempi righe su righe e il tutto ricopiando mille volte il nome del piccolo Padre, del grande totem nostrano, di Popòv senz’altro pure e poi cambia mestiere. Il giornalista a Suzdal’ è una professione che porta male per chi non ha ancora portato il cervello all’ammasso. Capito, bersagliere?”

   O gente, può darsi che abbiate ragione, ma io nutro seri dubbi su tutte quelle sviolinate che dovrei scrivere. Se i censori, leggendo tanti omaggi ai grandi del popolo, mi prendono per un convertibile in erba e mi spediscono per gli approfondimenti al Campo 27, che faccio? Dico loro che eran tutte balle o che ho scritto così per prendere in giro qualcuno? Ma che scherziamo? Che siamo ammattiti? No, no, meglio star lontano dalle partenze e affrontare il pericolo dentro al Campo.

   Ora, visto che l’Operazione Placido Don è terminata, che la biblioteca è chiusa, assolvo l’impegno preso scrivendo qualcosa su qualcosa di niente, poi torno all’antico, alla vita anonima, al niet-niet su tutto e con tutti, sempre. Ma che scrivo? Maledetta scuola tradizionale e borghese, e faziosa anche, che mi hai propinato tante frottole sulla rivoluzione francese, su quella americana, sui moti dei Boeri e quelli dei carbonari; e sulla rivoluzione russa cosa mi hai insegnato? Perché non mi hai avvertito che tale rivoluzione sarebbe in breve diventata mondiale e che avrebbe portato il trionfo del comunismo in tutti i paesi civili e incivili del mondo intero? Se mi capiterà d’incontrare un giorno, e lassù, i signori Radice, Croce, o Gentile glielo dirò io perché hanno detto e non detto sulla filosofia marxista-leninista, sulla rivoluzione bolscevica e sulla scuola progressista e popolare. Mentitori! Forse avevano paura di andare all’inferno confessando alle nuove generazioni che in verità tutto ciò che avevano detto, scritto, sbandierato ai quattro venti intorno al paradiso rosso erano soltanto opinioni, giudizi parziali perché loro in Russia non c’erano mai stati e pertanto con la sola fantasia e con l’immaginazione più fertile non potevano dire di più sul comunismo reale e sugli ammennicoli vari connessi a quella meravigliosa e planetaria ideologia che porterà ai popoli oppressi istruzione, libertà, benessere e pace eterna. Vedere per credere, allora, prima di parlare.

   Tornando ai miei problemi, mica posso continuare all’infinito a scegliere un argomento asettico e ideale per assolvere l’impegno preso. Largo popolo, ora mi butto, mi getto di getto, e comincio…

   Ho inteso dire che un certo filosofo di nome Losskij, nella sua Storia della filosofia russa, pone lo Hessen fra i rappresentanti dell’idealismo logico trascendentale e cioè lo fa rientrare nella corrente del neokantismo…

   Punto e basta, anche troppo ho detto! E che Iddio me la mandi buona! Termina così il lavoro cultural-giornalistico; il manoscritto, a matita, è pronto per la consegna brevi manu; contenuto e forma, letti, riletti, corretti restano in attesa del giudizio collettivistico. Consegna avvenuta; nessun commento in merito, niet, niente da chicchessia, nemmeno uno spasibo, cioè un grazie, niente di niente.



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