sabato 28 aprile 2018

Discorso del Presidente della Repubblica in occasione del 25 Aprile 2018

Un saluto cordiale a tutti, al Sindaco e, attraverso di lui, ai cittadini di Casoli, ringraziandoli per l’accoglienza così calorosa, aperta e affettuosa per la Repubblica.
Un saluto al Presidente della Regione, alla Vicepresidente della Camera dei Deputati, al Vicepresidente del CSM, a tutti i sindaci presenti.
Un saluto particolare all’Ambasciatore del Regno Unito, all’Incaricato d’Affari della Polonia, ringraziandoli per la loro presenza.
Mi rivolgo ai partigiani e ai veterani della Brigata Maiella. Abbiamo sentito poc’anzi, ancora una volta, ricordare il valore e il contributo che hanno dato alla storia del nostro Paese.
Vi è una storia che viene non soltanto trasmessa ma testimoniata dal vostro impegno, raccolto anche nell’ANPI.
Vi è un significato particolare nel ricordare la Liberazione, il 25 aprile, qui a Casoli. Sono molto lieto di poterlo fare perché Casoli è stato uno dei centri nevralgici della Resistenza in Abruzzo, e celebrare qui la festa della Liberazione consente di sottolineare le pagine di storia, non sempre adeguatamente sottolineate e conosciute, scritte dalla Resistenza nel Mezzogiorno d’Italia.
In questa Regione così bella e così fiera si svolsero, tra il 1943 e il 1944, alcuni degli episodi più drammatici e decisivi della lunga e sanguinosa guerra per liberare l’Italia dal nazifascismo e per restituire il nostro Paese al novero delle nazioni democratiche e pienamente civili.
Da Ortona s’imbarcarono verso sud il Re e i membri del governo Badoglio, abbandonando precipitosamente Roma al suo destino di occupazione tedesca.
Sul Gran Sasso fu detenuto e poi prelevato dai soldati tedeschi Benito Mussolini con un evento che portò alla nascita della Repubblica di Salò, che portò lutti e sangue tra gli italiani, sotto il controllo pieno e incondizionato della Germania nazista.
La linea Gustav, fortissimo caposaldo della difesa tedesca tagliava in due l’Italia, dall’Adriatico al Tirreno, e riuscì a fermare l’avanzata degli Alleati verso Roma.
Il “fronte italiano”, come venne chiamato dagli anglo-americani, si stabilì, per lunghi e durissimi mesi, tra Ortona, Cassino e Minturno, attraversando queste terre e queste montagne di cui oggi noi apprezziamo la grande bellezza ma che allora videro immani tragedie.
Le battaglie che si combatterono in Abruzzo, sul versante adriatico, nel 1943, furono tra le più aspre di tutto il conflitto sul territorio italiano. Ortona venne soprannominata “la Stalingrado d’Italia”.
La guerra, combattuta per anni in fronti lontani – Africa, Grecia, Balcani, Russia – irrompeva fragorosamente nel territorio italiano, coinvolgendo con il suo carico di distruzione e di morte la popolazione italiana.
Iniziarono i bombardamenti aerei, i feroci combattimenti terrestri. E poi, per i civili, la barbara sequenza di saccheggi, deportazioni, sfollamenti, rappresaglie e stragi.
In quel periodo la regione d’Abruzzo, con i suoi abitanti, visse una vera epopea, tragica e insieme eroica, diventando – insieme alle aree limitrofe – il teatro di operazioni belliche di primaria importanza per le sorti della guerra.
Lungo la linea Gustav si riproduceva, in una scala ridotta, il conflitto mondiale che opponeva la Germania hitleriana e i suoi marginali alleati europei, a eserciti venuti da ogni parte del mondo: inglesi, americani, polacchi, canadesi, neozelandesi, nordafricani, indiani…
Tra queste montagne, alte e innevate, sulle pendici del Gran Sasso, nelle valli della Majella, tra i paesi e i borghi d’alta quota, nacquero spontaneamente nuclei del movimento di Resistenza al nazifascismo. I primi in Italia.
Tra essi vi erano intellettuali, contadini e pastori, militari tornati dal fronte, carabinieri. C’erano antifascisti di lungo corso ed ex militanti fascisti, che si sentivano delusi e traditi. C’era tanta gente semplice, decisa a difendere il proprio territorio dai saccheggi e dalle prepotenze. La riconquista della libertà e dell’onore ne costituiva l’elemento unificante.
L’8 settembre del 1943, con le sue tragiche conseguenze, aveva rappresentato il simbolo più evidente – e, per alcuni aspetti, grottesco – della disgregazione dello Stato fascista.
Ma in molti cuori e in molte coscienze l’adesione al fascismo si era già frantumata. A partire dai campi di battaglia, in Africa o in Russia, dove uomini male armati e male equipaggiati erano stati cinicamente mandati allo sbaraglio per gli sciagurati e velleitari sogni di potenza e di conquista della dittatura.
L’occupazione nazista – spalleggiata dai fascisti di Salò, con i suoi metodi barbari e disumani, con le rappresaglie, le torture, le deportazioni, la caccia agli ebrei, le stragi di civili – aprì definitivamente gli occhi della popolazione sulla natura oppressiva e violenta del fascismo.
Non era, quella fascista, la Patria che aveva meritato il sacrificio eroico di tanti soldati italiani. La Patria, che rinasceva dalle ceneri della guerra, si ricollegava direttamente al Risorgimento, ai suoi ideali di libertà, umanità, civiltà e fratellanza.
Non fu, dunque, per caso, come ci ha raccontato con efficacia il professor Marco Patricelli, che ringrazio per il suo intervento interessante e coinvolgente, che gli uomini della Brigata Maiella scelsero per sé stessi il nome di “patrioti”. La stessa denominazione dei giovani che rischiavano la morte in nome dell’Unità di Italia.
La Resistenza fu un movimento corale, ampio e variegato, difficile da racchiudere in categorie o giudizi troppo sintetici o ristretti.
A lungo è stata rappresentata quasi esclusivamente come sinonimo di guerra partigiana, nelle regioni del Nord d’Italia o nelle grandi città.
E’ certamente vero che le “bande armate” operanti al Centro-Nord, costituirono il fenomeno più ampio, evidente e caratteristico della guerra di Liberazione ed è giusto ricordarlo.
Ma gli studi storici hanno, via via, allargato l’orizzonte al contributo fondamentale che alla Resistenza diedero le forze armate italiane. Sia nei teatri di guerra lontani – ed è importante ricordare i drammatici episodi di Cefalonia, Coo e Corfù- sia sul territorio nazionale, dove circa 260 mila italiani combatterono a fianco degli Alleati, partecipando all’avanzata. Il prezzo pagato, tra gli italiani, fu di circa 21 mila morti e 19 mila dispersi.
Il Generale Clark, soldato piuttosto ruvido e non certo avvezzo ai complimenti, riconobbe che «I quattro gruppi di combattimento italiani e i partigiani sostennero una parte importante nella vittoria, avendo così l’onore di partecipare alla liberazione del Paese».
Da qualche tempo, e doverosamente, gli storici hanno puntato l’attenzione anche sui militari italiani deportati nei campi di concentramento in Germania, in condizioni terribili, per il loro rifiuto di servire sotto le insegne di Salò e dell’esercito nazista. A loro venne persino negato lo status di prigionieri di guerra.
Furono più di seicentomila, una cifra enorme. Tra di loro molti generali e ufficiali superiori. Pochi cedettero in cambio di cibo e di condizioni di vita più accettabili. La stragrande maggioranza, la quasi totalità, rimase compatta, nonostante la fame, i patimenti, il freddo e i maltrattamenti. Circa cinquantamila non fecero più ritorno.
Va rammentato anche che il movimento della Resistenza non avrebbe potuto assumere l’importanza che ha avuto nella storia d’Italia senza il sostegno morale e materiale della popolazione civile.
Per essere “resistenti” non era necessario imbracciare il fucile. I terrificanti proclami tedeschi promettevano la fucilazione immediata e la distruzione della casa per chiunque avesse sfamato un soldato alleato, nascosto un renitente alla leva, aiutato un ebreo, sostenuto una banda partigiana. E i nazisti passavano con crudeltà dalle parole ai fatti. Senza fermarsi davanti a donne, bambini e anziani inermi. Chiunque, in quegli anni foschi, sfidò la morte con coraggio e abnegazione merita pienamente la qualifica di resistente.
Come notava con molto acume Aldo Moro, in un discorso del 1975, il contributo delle popolazioni permise alla Resistenza di superare «il limite di una guerra patriottico-militare, di un semplice movimento di restaurazione prefascista». E di diventare «un fatto sociale di rilevante importanza».
Una considerazione che getta ulteriore luce anche sull’importante contributo alla lotta di Liberazione delle popolazioni meridionali. Le tante insurrezioni, da Napoli a Matera, da Nola a Capua, alle tante avvenute in Abruzzo, attestano la percezione da parte degli italiani della posta in gioco: da una parte i massacratori, gli aguzzini, i persecutori di ebrei; dall’altra la civiltà, la libertà, il rispetto dei diritti inviolabili della persona.
Nelle parole dell’anziana donna abruzzese, citata da Patricelli, fucilata per aver sfamato un inglese, c’è racchiusa molta parte del senso della storia della Resistenza italiana: più che approfondite teorie politiche, coltivate dalle élite, era il riconoscimento della comune appartenenza al genere umano a costituire l’assoluto rifiuto a ogni ideologia basata sulla sopraffazione, la violenza e la superiorità razziale.
Nella lotta al nazismo, la popolazione d’Abruzzo fu particolarmente esemplare. Pagando un tributo alto di sangue che va adeguatamente ricordato, con riconoscenza e con ammirazione.
La rivolta cominciò, subito dopo l’8 settembre, con episodi spontanei ma diffusi.
All’Aquila nove ragazzi sorpresi con le armi in pugno furono fucilati sul posto dai soldati tedeschi. Nessuno di loro superava i venti anni.
A Bosco Martese, sulle montagne teramane, si radunarono 1600 uomini in armi. C’erano trecento sbandati, un centinaio di prigionieri di guerra, inglesi e slavi, evasi dal campo di concentramento. Ma la maggior parte erano giovani provenienti da Teramo, decisi a combattere.
Per più di ventiquattro ore riuscirono a tenere testa all’esercito tedesco, poi – di fronte a un nuovo attacco con armi pesanti e rinforzi – si dispersero tra i boschi, per continuare la lotta. Anche qui, un battesimo del fuoco. Commentò Parri, comandante nazionale dei partigiani: quella di Bosco Martese «fu la prima battaglia nostra in campo aperto».
Insorse anche la città di Teramo. Pure qui il bilancio fu tragico: i capi dei rivoltosi, guidati dal medico Mario Capuani, sostenuto dai carabinieri della locale caserma, furono barbaramente trucidati.
Si ribellò Lanciano. Uno dei protagonisti della rivolta, Trentino La Barba, fu orrendamente seviziato in pubblico da un soldato nazista, prima di trafiggerlo mortalmente.
Furono quasi un migliaio le vittime civili di eccidi e rappresaglie. Pietransieri (125 morti), Sant’Agata di Gessopalena (36), Capistrello (33 morti). Francavilla, Arielli, Onna, Filetto, Lanciano, Montenerodomo, Pizzoferrato, Bussi sul Tirino, sono alcuni dei nomi dei paesi d’Abruzzo che conobbero la ferocia nazista contro la popolazione civile.
Ma il terrore e le fucilazioni non impedivano, anzi, in qualche modo, aumentavano l’impegno degli abruzzesi a fianco dei liberatori: anziani, donne, ragazzi, sacerdoti. Chi poteva si impegnava attivamente. Rischiando di continuo la vita.
Si aprirono così, tra questi monti, i sentieri della libertà. Pastori, cacciatori, guide locali accompagnavano generosamente soldati alleati e italiani, ebrei, fuggiaschi e perseguitati al di là della Linea Gustav, mettendoli in salvo. Tra questi ci fu anche il mio illustre predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, in fuga con un suo amico ebreo, Beniamino Sadùn.
La grande scrittrice Alba De Céspedes, intellettuale e partigiana, ci ha lasciato una bellissima descrizione del popolo abruzzese in quegli anni, che vorrei leggere perché è forse una delle più belle testimonianze di ciò che ha fatto la gente d’Abruzzo in quel momento: «Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è un oggetto ingombrante, un carico di rischi e di compromissioni. Ma voi neppure accennavate a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore, gettavano un’altra manata di polenta nel paiolo. […] Non c’era bisogno di passaporto per entrare in casa vostra. C’erano inglesi, romeni, sloveni, polacchi, voi non intendevate il loro linguaggio ma ciò non era necessario; che avessero bisogno di aiuto lo capivate lo stesso. Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d’Abruzzo? Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non avevamo denaro». Queste parole sono splendide.
Vennero poi le gesta della Brigata Maiella che ci conducono qui oggi a ricordare per tutta Italia la liberazione del 25 aprile.
Partita dall’Abruzzo e finita nel lontano Veneto. Ce le hanno narrate, con efficacia e partecipazione lo storico Marco Patricelli e con la sua testimonianza scritta Antonio Rullo, che combatté con questa leggendaria Brigata, accanto a Ettore e Domenico Troilo, straordinarie figure da ricordare sempre. Desidero ancora ringraziarlo per il suo messaggio, che ha aggiunto calore e commozione al nostro ricordo. Saluto anche i figli presenti di Ettore e Domenico Troilo e li ringrazio per la loro presenza, così significativa, tra noi.
La nascita del movimento della Resistenza, che mosse i primi passi in Abruzzo, segna il vero spartiacque della nostra storia nazionale verso la libertà. Chiuse la fase della dittatura e portò l’Italia all’approdo della libertà, della democrazia e della Costituzione.
La vita democratica, dopo il cupo ventennio fascista, ha le sue radici nella lotta di liberazione. E la nostra Costituzione, sigillo di libertà e democrazia, come scrisse Costantino Mortati nel 1955, nel decennale della Liberazione, «si collega al grande moto di rinnovamento espresso dalla Resistenza».
Vorrei concludere rivolgendo un commosso pensiero anche a tutti quei giovani soldati, provenienti da tante parti del mondo, che sono caduti sul suolo italiano per liberarci dal giogo nazifascista e che riposano nei cimiteri di guerra: non sono stranieri, ma sono nostri fratelli.
Il ricordo della Repubblica li abbraccia insieme ai nostri caduti della Resistenza, cui è sempre rivolto il nostro pensiero riconoscente e ammirato.
Viva la Resistenza, viva l’Italia libera e democratica!

(Fonte: Quirinale)

Fonte dati: https://letteratitudinenews.wordpress.com

Grazie Presidente, per aver ricordato i soldati Italiani dei Gruppi di Combattimento.






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