La mattanza dei Carabinieri
La cattura e la barbara uccisione
di 18 Carabinieri da parte del IX Corpus titino.
tratto da:
DOSSIER del QUOTIDIANO NAZIONALE
settembre 2004 "Il tricolore
a Trieste"
articolo di Lorenzo Bianchi
Per dieci anni ha coltivato la
speranza. Per dieci anni ha acceso una piccola candela sul davanzale di una
finestra, il cuore in gola, il respiro accelerato. Era un filo sottile, il
tentativo disperato di segnalare al marito la strada di casa. Quel minuscolo
punto luminoso avrebbe potuto guidarlo nelle tenebre che lo avevano ingoiato
dall'altipiano di Tarnova a Gorizia. Ernesta Stame, moglie del carabiniere
Paolo Bassani è una donna ostinata e fiduciosa. Prima di sparire, la sera del
18 maggio 1945, durante i quaranta giorni di occupazione dei partigiani
jugoslavi, il militare era riuscito a impietosire un carceriere e gli aveva
affidato un biglietto laconico, ma rassicurante: "Ti saluto e spero tanto
di poter ritornare. Non pensare a male, io sto bene. Tanti saluti e baci. Tuo
marito Paolo". Ernesta, caparbia e fiduciosa, non "ha pensato a
male". Ha acceso la fiammella per illuminare il sentiero dell'improbabile
ritorno. Non sapeva che Paolo giaceva sul fondo della foiba di Zavnj, a 150
metri di profondità, assieme a 17 colleghi e a tanti altri, civili
inconsapevoli, partigiani cattolici sloveni, fascisti italiani, vittime di una
puilizia etnica e politica feroce, sistematica, organizzata.
Nell' archivio dello storico di
Pordenone Marco Pirina, fondatore del "Centro studi e ricerche storiche
Silentes Loquimur", sono archiviati 5700 nomi per la sola area di Gorizia.
Il destino dei diciotto carabinieri della stazione di via Barzellini,
inghiottiti nel nulla a guerra persa e ampiamente finita è il paradigma della
sciagura collettiva. Dopo l'8 settembre 1943 erano rimasti nel presidio,
proprio di fronte al carcere, quaranta militari agli ordini del tenente
Tonarelli. Avevano ancora la scritta RR CC, Reali Carabinieri sugli elmetti.
I tedeschi li tollerano a fatica.
Non li utilizzano per le operazioni delicate, come i rastrellamenti di
partigiani. Delegano ai militari dell'Arma la funzione inferiore di contrastare
i ladri e la borsa nera dei generi alimentari, il piccolo traffico dei
contadini che vendono in nero polli, grano, carne e verdura sottratti al
razionamento. La rarefazione di cibo si fa sentire. "Una catenina d'oro
per un chilo di sale", esemplifica Pirina.
Il 30 aprile Gorizia è
attraversata da squadracce di "cetnici", nazionalisti serbi che
razziano e sparacchiano a 360 gradi nella corsa precipitosa verso Palmanova
dove progettano di consegnarsi alle unità inglesi. Il primo maggio entra in
città il IX corpo sloveno. Cominciano le retate sistematiche. Vengono arrestate
940 persone. Di 665 non si saprà più nulla. Restano solo le memorie dei parenti
disperati e i nomi incisi sul lapidario del Parco della Rimembranza. I diciotto
carabinieri rimasti nella tenenza di via Barzellini finiscono nelle celle del
carcere. Il diciotto maggio vengono bastonati o spinti a forza a sbattere la
testa contro i muri del penitenziario e caricati su un camion. Il mezzo si
dirige lentamente verso l'altipiano. Da allora solo silenzio sulla loro sorte.
Un vuoto opprimente che si infrange solo nel 1994. Marco Pirina viene mobilitato
da Giovanni Guarini, figlio del brigadiere Pasquale, leccese della provincia,
classe 1902. Lo storico decide di aggrapparsi all'unica, esile, memoria storica
che è rimasta, il parroco di Tarnova. Il prete lo indirizza a una Gostilna, una
trattoria. Una donna di 84 anni, Elena Rjavec, suggerisce di sentire un
partigiano di Nenici, un certo Antonio Winkler, settanta anni. L'uomo ha
abitato a Gorizia per un ventennio e parla perfettamente l'italiano. Pirina
alza una cortina fumogena sul vero scopo della visita. Finge di essere
interessato alla sorte di un gruppo di dispersi sloveni. Winkler
abbocca."Ma lei non sa nulla dei carabinieri?", si stupisce.
Il bosco è fitto. L'ex
guerrigliero ha la strada scolpita nella memoria. Indica i luoghi, il tragitto
del camion, "avevano i polsi legati con filo di ferro rinserrato con le
pinze", la buca nella quale è stato sepolto un finanziere che è crollato
per terra a venti metri dalla bocca del pozzo naturale che ha ingoiato i
condannati a morte. Pirina ha annotato il racconto del partigiano, parola per
parola: "Li feci salire all'imbocco della foiba. Lì c'era la squadra che
li buttava nell'abisso. Qualcuno era vivo. Ad altri sparavano prima di
sospingerli nel vuoto. Sono quasi cinquanta anni che non vengo più in questo posto.
A quelli che uccidevano avevano dato una bottiglia di rum a testa. Dovevano
stordirsi. A noi, che avevamo fatto una faticaccia per trasportarli fin lassù,
non toccò nulla, neppure un goccio". Giovanni Guarini piange quietamente.
Pirina, storico per passione dopo
una lunga carriera di responsabile marketing per l'Agip, ha ricostruito un
elenco incompleto. Dieci famiglie che non hanno un posto nel quale depositare
un fiore, persone accomunate a migliaia di altre alle quali è negata perfino la
normalità del ricordo. Scomparsi che suscitano ancora imbarazzo. La foiba di
Zavnj è stata recintata con una staccionata di legno. C'è una croce che
sovrasta un altare minuscolo. Su una targa è riportato un verso ecumenico e
generico di una poetessa slovena: "Viandante che passi ascolta le grida di
chi è stato gettato qui dentro". Nella vecchia caserma di via Barzellini
la targa dedicata ai carabinieri rastrellati è confinata in un corridoio
interno che immette negli uffici. Ai familiari stretti è stata riconosciuta la
pensione di guerra, quattrocentoquindicimila vecchie lire. Ai figli le
provvidenze che spettano agli orfani del conflitto. Ora si aggiungono un
distintivo e un certificato firmato da Ciampi. Clara Morassi, 78 anni, figlia
dell'ex vicesindaco di Gorizia spiega. con velata ironia, che possono
fregiarsene le famiglie degli infoibati fino alla sesta generazione. Pirina non
riesce a capacitarsi del silenzio sloveno e della disparità di trattamento
rispetto agli austriaci: "Loro hanno avuto un elenco di 5400 nomi. Noi
nulla. Io sono convintissimo del fatto che sia giusto chiudere con il passato,
riconoscendo però a tutti la dignità della memoria".
Gli scomparsi sono diventati il
centro della sua seconda vita. Gli sono costati minacce telefoniche,
"anche 5 o 6 al giorno", di italiani e sloveni, e un cappio lasciato
sulla porta di casa. Nel 2000 gli hanno sabotato l'auto. Una mano ignota ha
messo fuori uso i fili elettrici che segnalano i guasti ai freni e ha tagliato
quasi completamente la cinghia del ventilatore. "Attenzioni" inutili.
Il 25 settembre il suo Centro
pubblicherà un nuovo libro intitolato "Guerra civile 1945 ?1947 la
Rivoluzione Rossa". Il filone è sempre quello degli svaniti nel nulla:
"Dopo piazzale Loreto sono sparite 50.600 persone. I corpi ritrovati sono
solo 15 mila".
Foiba di Vines
Recuperate dal Maresciallo Harzarich dal
16.10.1943 al 25.10.1943 cinquantuno salme riconosciute. In questa Foiba, sul
cui fondo scorre dell'acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati,
finirono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani.
Furono poi lanciate delle bombe a mano nell'interno. Unico superstite, Giovanni
Radeticchio, ha raccontato il fatto.
Riuscì a sopravvivere Giovanni Radeticchio di Sisano.
Ecco il suo racconto: "Addì 2 maggio 1945, Giulio
Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con
un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e
Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo
Littorio dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa
all’ingiù fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra
dallo stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché
rinvennero e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al
comando, venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno.
Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore
di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non condita. Anche
questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col filo di ferro ai polsi
due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci
picchiavano perché era buio.
Ad un certo momento della notte vennero a prelevarci uno ad
uno per portarci nella camera della torture. Ero l'ultimo ad essere martoriato:
udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le urla di strazio di
questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai
polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato,
fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un secondo mi picchiava col filo di
ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto con pugni, la
femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio.
Prima dell'alba mi legarono con le mani dietro la schiena ed
in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da
Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe
Sabatti da Visinada, mi condussero fino all'imboccatura della Foiba. Per strada
ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al posto del
supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze
(le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima), il fazzoletto da
naso e la cinghia dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del peso di circa
dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro
filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Lidovisi, già sceso
nella Foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio
volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi
illeso nell'acqua della Foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena,
ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e
dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l'ultima vittima, gettarono una
bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più.
Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i
polsi, straziando contemporaneamente le mie carni,poiché i polsi cedettero prima
del filo di ferro. Rimasi così nella Foiba per un paio di ore. Poi, col favore
della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba"
Brano tratto dal sito: www.leganazionale.it Trieste
La strage dei Carabinieri alle
Cave del Predil
12 carabinieri torturati e
trucidati da partigiani comunisti titini.
Malga Bala: l’atroce eccidio.
La carrozzabile Tarvisio - Cave
del Predil - Passo Predil - Plezzo - Gorizia costituiva un’importantissima
arteria utilizzata dalle forze di occupazione tedesche per lo smistamento nei
due sensi di marcia di uomini, armi, viveri, munizioni destinati dalla Germania
alla zona del Litorale Adriatico. La resistenza slava, dal canto suo, prendeva
di mira le autocolonne tedesche, provocando sovente pesanti perdite ed
intaccando il prestigio militare germanico.
In risposta all’ultimo di una
serie di agguati, in cui rimase ucciso un soldato tedesco che stava percorrendo
con una motocarrozzetta la strada che conduce da Passo Predil verso la Valle
Coritenza, l’11 ottobre 1943 due autocarri di SS tedesche raggiunsero Bretto di
sopra dove, con largo uso di lanciafiamme, incendiarono tutte le abitazioni
dove erano state rinvenute armi e vestiario militare (una donna 80enne venne
arsa viva), fucilando tutti gli uomini Pietro Tognazzorastrellati (15 in tutto,
mentre un sedicesimo venne ucciso a colpi di calcio di fucile).
Essendosi generata una situazione
di pericolo concreto, il commissario germanico sulla miniera di Raibl, tale
Hempel, ottenne dal comando militare tedesco di Tarvisio la costituzione di un
Distaccamento fisso di carabinieri a protezione della centrale idroelettrica a
valle di Bretto di sotto.
Dino PerpignanoLa sera del 23
marzo 1944, il V. Brig. PERPIGNANO, comandante del distaccamento ed il Car.
FRANZAN si erano recati in paese e, sulla strada del ritorno, vennero aggrediti
da due partigiani, SOCIAN e ZVONKO, mentre la caserma era già circondata da
altri partigiani, rimasti nascosti.
Il commando, successivamente:
- catturò i due carabinieri di
guardia alla centrale;
- entrò all’interno della
caserma, verosimilmente costringendo con minacce il comandante a pronunciare la
parola d’ordine.
I carabinieri vennero fatti vestire
velocemente, mentre i partigiani si impossessavano delle armi e di quant’altro
di utile avessero potuto trovare nella caserma, poi minata con esplosivo, così
come era stato fatto per la centrale idroelettrica.
Il commando
partigiano e gli ostaggi, costretti a portare a spalla tutto il materiale
trafugato dalla caserma, si incamminarono lungo un percorso tutto in salita,
nel bosco per raggiungere a tappe forzate Malga Bala, passando per il Monte
Izgora (1.000 m circa s.l.m.), la Val Bausiza (di nuovo a valle) e risalendo
verso l’altipiano di Bala.
Il lungo tragitto venne
intervallato da poche soste, di cui l’ultima, la sera del 24 marzo, in una
stalla sita sull’altipiano di Logje (853 m s.l.m.). Qui venne loro somministrato
minestrone a cui erano stati proditoriamente aggiunti soda caustica e sale
nero, usato per il bestiame perché ad elevato potere purgante.
La mattina
successiva (25 marzo) venne fatto percorrere ai prigionieri l’ultimo tratto di
strada che li separava dal luogo della mattanza, un casolare sito su un
pianoro, malga Bala appunto, dove:
- il Vicebrigadiere PERPIGNANO
venne arpionato ad un calcagno con un uncino, appeso a testa in giù e costretto
a vedere la fine dei propri dipendenti; verrà finito a pedate in testa;
- gli altri militari vennero
sterminati barbaramente, dopo essere stati incaprettati con filo di ferro,
legato anche ai testicoli, così che i movimenti parossistici sotto i colpi di
piccone amplificassero il dolore; ad alcuni furono tagliati i genitali e
conficcati loro in bocca; ad altri Pasquale Ruggerovennero sbriciolati gli
occhi; ad altri ancora venne poi sventrato il cuore a picconate; in
particolare, al Car. AMENICI venne infilata nel petto la foto dei figli.
Al termine dell’eccidio, i corpi
vennero trascinati a qualche decina di metri dal casolare ed ammucchiati sotto
un grosso sasso, parzialmente ricoperti dalla neve.
I cadaveri
dei militari vennero rinvenuti casualmente da una pattuglia di militari tedeschi
e recuperati per essere ricomposti presso la chiesa di Tarvisio tra il 31 marzo
ed il 2 aprile 1944. I funerali si svolsero presso la stessa chiesa il 4 aprile
1944. Al termine di solenne cerimonia funebre, i resti dei dodici carabinieri
furono seppelliti in località Manolz di Tarvisio.Antonio Ferro
Dal settembre 1957, grazie
all'opera del "Comitato Onoranze ai Caduti nel Comune di Tarvisio",
che ha ultimato la costruzione del tempio ossario all'interno della torre
medievale, attigua a questa parrocchia, riposano in pace unitamente a 14
combattenti del XVII Settore delle Guardie alla Frontiera ed a 5 militari
tarvisiani, Caduti in guerra nove dei dodici carabinieri trucidati.
Di seguito i nomi dei 12 CC
trucidati:
- V.Brigadiere PERPIGNANO Dino,
nato a Sommacampagna (Verona) 17 agosto 1921;
- Car. DAL VECCHIO Domenico, n. a
Refronto (Treviso) il 18 ottobre 1924;
- Car. FERRO Antonio, Rosolina
(Rovigo) il 16 febbraio 1923;
- Car. AMENICI Primo, n. a
Crespino (Rovigo) il 5 settembre 1905;
- Car. BERTOGLI Lindo, n. a
Casola Montefiorino (Modena) il 19 marzo 1921;
- Car. COLSI Rodolfo, n. a Signa
(Firenze) il 3 febbraio 1920;
- Car. FERRETTI Fernando, n. San
Martino in Rio (Reggio Emilia) il 4 luglio 1920;
- Car. FRANZAN Attilio, n. a
Prola Vicentina (Vicenza) il 9 ottobre 1913;
- Car. RUGGERO Pasquale, n. a
Airola (Benevento) l’11 febbraio 1924;
- Car. ZILIO Adelmino, n. a
Prozolo di Camponogara (Venezia) il 15 giungo 1921;
- Car. Aus. CASTELLANO Michele,
n. a Rochetta S’Antonio (Foggia) l’11 novembre 1910;
- Car. Aus. TOGNAZZO Pietro, n. a
Pontevigodarzere (Padova) il 30 giugno 1912.
da www.carabinieri.it
Ricordo struggente di Mafalda
Codan
I brani che seguono sono tratti
dal diario di Mafalda Codan che venne arrestata a Trieste, dove si era
rifugiata, ai primi di maggio del 1945.
Anche il padre e gli zii della
giovane donna, commercianti e possidenti, erano stati arrestati e infoibati in
Istria nell'autunno del 1943.
tratto da Foibe: 60 anni di
silenzi
Il 7 maggio 1945 [...] prendo un
libro e vado in giardino. Appena uscita mi trovo davanti tre partigiani comandati da
Nino Stoinich con il mitra spianato. Prima di tutto si rallegrano dell'orribile
morte dei miei cari e poi mi intimano di seguirli. Vestita come sono, senza
poter più né entrare in casa né salutare la mamma, devo seguirli. Con un filo
di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una
macchina.[...] Prima sosta, Visinada. Mi portano sulla piazza gremita di gente,
partigiani, donne scalmanate, urlano, gesticolano, imprecano. S. mi presenta
come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri,
tutti cominciano a insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni
e a gridare: a morte, a morte. [...] A Santa Domenica mi portano
davanti alla casa di Norma Cossetto, infoibata nel settembre del 1943, chiamano
sua madre, vogliono farla assistere alle mie torture per ricordarle il martirio
della sua Norma. La signora, nonostante le severe intimazioni, si rifiuta di
uscire, la trascinano a forza sulla porta e, appena mi vede in quelle
condizioni, cade a terra svenuta. [...]
Siamo arrivati davanti a casa
mia. [...] Si raduna subito una folla scalmanata e urlante: il tribunale del
popolo. Stoinich tira fuori un foglio e comincia a leggere le accuse:
infondate, non vere, testimonianze false, imposte. Vedo i miei coloni e molte
persone aiutate e mantenute gratis da mio padre. Non posso credere ai miei
occhi, sono gli stessi che prima "veneravano" la mia famiglia e si
consideravano amici, ora sono qui per condannarmi e gridare "a morte".
Sono diventati tutti un gregge di pecore, fanno ciò che è stato loro imposto di
fare, ora seguono chi comanda, chi promette loro la spartizione delle terre dei
padroni. Non posso stare zitta, urlo anch'io, non posso puntare il dito contro
quelle bestie mostruose solamente perché ho le mani legate, li chiamo allora
per nome, li accuso della morte dei miei cari, dei furti commessi, dei soprusi,
dei debiti mai pagati... e da accusata divento accusatrice. [...] Nell'ex
dopolavoro mi attendono tre donne. Mi legano a una colonna in mezzo alla sala,
a sinistra e a destra mi mettono due bandiere slave con la stella rossa e sopra
la testa il ritratto di Tito. È un druze grande e grosso che dà il via al
pestaggio. Con tutta la sua forza comincia a percuotermi con una cinghia. Mi
colpisce così forte sugli occhi che noti riesco più a riaprirli. Mi spiace
perché ho sempre avuto il coraggio di fissare negli occhi chi mi picchiava. Le
sevizie continuano, le donne mi colpiscono con grossi bastoni, con delle
tenaglie cercano di levarmi le unghie ma non ci riescono perché sono troppo
corte. Una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e
chiuse: "Apri gli occhi che te li levo" mi grida. [...] Più tardi mi
fanno fare il giro del paese legata a una catena come un orso, mi segue un
codazzo di bambini divertiti. [...] Arriva un carro, mi fanno salire, fanno
correre il cavallo e io devo stare in piedi. Le continue scosse mi fanno cadere
e, ogni volta, un colpo di mitra mi rialza. In quelle condizioni giro diversi
paesi. [...] A Parenzo mi portano nel piazzale del Castello, ora caserma, dove
sono radunati gli uomini. [...] Quello che si scaglia furibondo contro di me è
Ziri, un mio ex colono che ha avuto tanto bene da mio padre. Dice di essere
felicissimo di vedermi in quelle condizioni e spera che tutta la famiglia sia
distrutta per essere lui il padrone dei nostri campi.
[Nel castello di Pisino] Tutte le
notti, un partigiano dalla faccia cupa e torva, entra nelle celle ed esce con
qualcuno che non tornerà più. Quando al lume delle torce cerca sul foglio i
nomi, gli occhi di tutti sono attaccati alla sua bocca e un brivido improvviso
ci attraversa il corpo. Le urla di dolore di Arnaldo [il fratello
diciassettenne, detenuto e torturato nel medesimo carcere] e degli altri suoi
compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte. [...]
Una notte la porta si apre e subito mi assale il terrore, questa volta sul
foglio c'è anche il mio nome. [...] Io vengo legata braccio a braccio con una
giovane incinta. Ci conducono sullo spiazzo del castello dove ci attendono due
camion già pieni di prigionieri, con i motori accesi. Ci caricano sul secondo,
chiudono le sponde e vien dato l'ordine di partire. In quell'istante arriva di
corsa un ufficiale con un foglio in mano e grida: "Alt! Mafalda Codan
giù". Mi sento mancare, tremo tutta […]. Il capo mi prende per un braccio,
mi accompagna in una casetta di fronte al carcere, mi getta in una stanza buia
e mi chiude dentro. [...] Al mattino gli aguzzini tornano felici di aver ucciso
tanti nemici del popolo. Li hanno massacrati tutti. Uno entra nella mia nuova
"residenza" e mi chiede: "Quanti anni aveva tuo fratello? Non
voleva morire sai, anche dopo morto il suo corpo ha continuato a saltare"
[…].
Una mattina un druze mi
accompagna al Comando. Entro in un ufficio, dietro una scrivania siedono due
uomini dall'apparenza civile, sono due giudici, uno indossa l'uniforme, l'altro
è in borghese. "Hai visite" mi dicono, aprono una porta ed entrano
quattro donne scalmanate. "Come? E' ancora viva?" chiedono
arrabbiate. "Perché non è "partita" con gli altri? ".
Urlano, gridano, vogliono picchiarmi. I due capi glielo proibiscono. Mi
accusano di cose inaudite e allora urlo anch'io e, anche questa volta, da accusata
divento accusatrice, di cose vere però. Da una frase detta dalle forsennate,
capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno
trovato il mio diario. In un quadernone ho scritto infatti il calvario della
mia famiglia iniziato con l'occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho
annotato tutto nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole
dette, tutto [...] e completato con fotografie, documenti importanti e pezzi di
giornale. Sono testimonianze che scottano, verità che non si possono negare,
che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte. Ora racconto ai
giudici tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia, cosa ho vissuto,
faccio nomi, non riesco a tacere perché ho la coscienza a posto, so di essere
innocente, non ho paura di nessuno. [...] Da quell'istante la mia vita cambia.
I due capi hanno capito che non ho fatto niente di male. [...] Riacquisto
subito la semilibertà, giro da sola senza la scorta di guardie armate e divento
la donna di servizio della moglie di Milenko, uno dei capi. È un giovane
dalmata, laureato in legge, parla abbastanza bene l'italiano e il francese ed è
molto umano. [...] Mangio con loro e, alla sera, ritorno in prigione. Mi
trattano umanamente, ma tra noi rimane pur sempre uri rapporto schiavo-padrone.
[...] Potrei scappare ogni giorno, ma i miei principi e la parola d'onore data,
mi impediscono di farlo. Per nessuna cosa al mondo tradirci la fiducia delle
persone che hanno creduto in me. E intanto, pian piano, il grigio sconforto che
mi aveva colmato il cuore e la mente negli ultimi mesi, comincia a dissiparsi.
La foiba di Basovizza
La cosiddetta foiba di Basovizza è nella realtà il pozzo
minerario Šoht, scavato all'inizio del XX Sec. per l'estrazione del carbone,
poi abbandonato per la sua improduttività.
Dichiarata monumento nazionale, è divenuta il principale
memoriale per i familiari degli infoibati e dei deportati deceduti nei campi di
concentramento in Jugoslavia, che non hanno potuto identificare la sepoltura
dei congiunti, e delle associazioni degli italiani che esuli dall’Istria, da
Fiume e dalla Dalmazia, che qui ricordano le vittime delle violenze
dell’autunno 1943 e della primavera 1945.
Il pozzo di Basovizza e la foiba n. 149 divennero siti di
interesse nazionale nel 1980, ma si dovettero attendere ancora 11 anni per
avere un riconoscimento da parte delle alte cariche dello Stato: nel 1991 vi si
recò in visita Francesco Cossiga, mentre nel 1992 Oscar Luigi Scalfaro proclamò
il sito "monumento nazionale".
Quante furono le persone gettate nella Foiba di Basovizza?
Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di
Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente
la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di
una trentina di metri.
Lo spazio volumetrico conterrebbe le salme degli infoibati:
oltre duemila vittime.
Il monumento della foiba di Basovizza è semplice: consiste
in una lastra in pietra grigia, con una grande croce; sullo zoccolo frontale è
riportato un passo della "preghiera dell'infoibato" dell'arcivescovo
Antonio Santin.
Quello che segue è il testo integrale della preghiera:
O Dio,
Signore della vita e della morte,
della luce e delle tenebre,
dalle profondità di questa terra e
di questo nostro dolore noi gridiamo a Te.
Ascolta, o Signore, la nostra voce.
De profundis clamo ad Te, Domine.
Domine, audi vocem meam.
Oggi tutti i Morti attendono una preghiera,
un gesto di pietà,
un ricordo di affetto.
E anche noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere
preghiere
e deporre i nostri fiori,
ma anche per apprendere l'insegnamento che sale dal
sacrificio di questi Morti.
E ci rivolgiamo a Te,
perché tu hai raccolto l'ultimo loro grido,
l 'ultimo loro respiro.
Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della
terra,
costituisce una grande cattedra,
che indica nella giustizia e nell'amore le vie della pace.
In trent'anni due guerre,
come due bufere di fuoco,
sono passate attraverso queste colline carsiche;
hanno seminato la morte tra queste rocce e questi cespugli;
hanno riempito cimiteri e ospedali;
hanno anche scatenato qualche volta l'incontrollata
violenza,
seminatrice di delitti e di odio.
Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua
Pace,
una pace che sia riposo tranquillo per i Morti e sia
serenità di lavoro e di fede per i vivi.
Fa che
gli uomini,
spaventati dalle conseguenze terribili del loro odio e
attratti dalla soavità del Tuo Vangelo, ritornino, come il figlio prodigo,
nella Tua casa per sentirsi e amarsi tutti come figli dello
stesso Padre.
Padre nostro, che sei nei cieli,
sia santificato il Tuo Nome,venga il Tuo regno,
sia fatta la Tua volontà.
Dona conforto alle spose,
alle madri, alle sorelle,
ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di
questa nostra triste terra,
e a tutti noi che siamo vivi
e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi
nostri Morti,
profonda come le voragini che li accolgono.
Tu sei il Vivente, o Signore,
e in Te essi vivono.
Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti
offriamo,
o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera,
la nostra angoscia, i nostri sacrifici,
perché giungano presto a gioire dello splendore dei Tuo
Volto.
E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà.
Tu ci hai detto: Beati i misericordiosi perché otterranno
misericordia,
beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio,
beati coloro che piangono perché saranno consolati,
ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia
perché saranno saziati in Te,
O Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo
dell'iniquità.
O signore, a questi nostri Morti senza nome ma da Te
conosciuti e amati,
dona la Tua pace.
Risplenda a loro la Luce perpetua e brilli la Tua Luce anche
sulla nostra terra e nei nostri cuori,
E per il loro sacrificio fa che le speranze dei buoni
fioriscano.
Domine,
coram te est omne desiderium meum et gemitus meus te non latet.
Amen.
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