o6 - Campo 160, Suzdal': fame atroce e propaganda
asfissiante
La vista,
in un pomeriggio inoltrato, di un grosso paese che si stagliava in lontananza
tra il nevischio e la densa nebbia ci rincuorò un poco e ci infuse nuova lena
per proseguire. Una grande cerchia di mura con svettanti torrioni a cipolla e
uno spesso, alto portone d'ingresso - tipo castello medioevale - ci accolsero.
Nella fortezza
antica diversi caseggiati in muratura segnati dagli anni ci offrirono
finalmente un riparo. Erano scomparsi l’immenso cielo che sovrastava sulla
steppa infinita e il vasto orizzonte che si confondeva in lontananza con la
stessa terra; sopra di noi restava un piccolo fazzoletto di cielo, dintorno le
alte mura e i possenti torrioni: un luogo tetro ma finalmente eravamo arrivati
alla meta e sotto un tetto per ripararci. Eravamo nel lager di Suzdal’, al
Campo n. 160; la nostra dimora che ci avrebbe ospitati per tutta la lunga
prigionia in Russia. Finite d’incanto le tragiche, lunghe, interminabili marce
del davai; svanito il ricordo amaro del treno del pianto e della morte, si riaffacciava
in noi la speranza di un domani migliore, non certo immaginabile peggiore
dell’oggi. Dopo tanto penare finalmente ricominceremo a vivere, o per lo meno a
non più morire - pensarono gli affranti e sfiniti celoviek colmi di speranza
nel cuore mentre si sdraiavano sui duri tavolacci che il convento offriva per
l’agognato riposo.
Di giorno in giorno
però la fame aumentava e di pari passo le forze cedevano. La brodaglia di
ortiche bollite e il pezzo di pane nero che ci veniva distribuito saltuariamente
non era sufficiente nemmeno a compensare le calorie indispensabili per vivere,
figuriamoci poi a rimettere in sesto un organismo ormai debilitato dalle
tremende fatiche sopportate.
Col passare dei
giorni un nuovo, sconcertante tormento cominciò ad affliggere le larve umane
denominate celoviek: un prurito ossessionante, continuo, irrefrenabile causato
dai pidocchi al quale, di notte, si aggiungeva un fastidio irritante, un
tormento insopportabile imputabile ad un esercito di cimici che chissà da quanti
anni avevano preso dimora nei tavolacci, o castelli, divenuti i nostri
giacigli, tolse ai malcapitati riposo e pace.
Qualcuno, più
temerario degli altri, tentò di togliersi di dosso gli indumenti, che erano
diventati duri, a prova di proiettili per la sporcizia, il sudore, il puzzo che
ormai da mesi li impregnava, nel vano tentativo di ammazzare qualche unità o
squadra di quei maledetti parassiti che ci procuravano un indicibile assillo.
Tentativo vano e inutile; impresa ardua e impossibile, subito da scartare anche
perché il freddo era già intenso con quei pochi panni addosso, figuriamoci poi
senza, e inoltre perché non solo sui vestiti ma sull’intero corpo c’erano
pidocchi, e non solo alcuni pidocchi, ma colonie, grappoli di parassiti e
milioni di bianchi puntini, le uova. Inoltre, cercare le cimici al buio per
poterne ammazzare qualcuna era come cercare uno spillo in un pagliaio. Un
ufficiale della Vicenza, che ebbe il coraggio di denudarsi, dopo essersi
grattato furiosamente a lungo, sanguinava come può sanguinare una persona
graffiata da cento gatti arrabbiati o un guastatore passato più volte sotto i
reticolati di filo spinato. Che tormento quello dei pidocchi, gente! Che
prurito insopportabile, popolo!, quello provocato di notte dalle cimici che ti
succhiano quel po’ di sangue rimasto e ti lasciano gonfiori che sei tentato di
annullare con le unghie e coi denti!
Se non tengo ben
stretti i miei cari pantaloni e le splendide mutandone di lana che porto
addosso da tempo immemorabile - pensò il c.b. -, quel vestiario a poco a poco
se ne va da solo e resto nudo. E con le braccia ben strette al corpo il tapino
si accinse a dormire. Col sonno svanirono i tristi ricordi, le ansie passate, i
dolori patiti; sulle labbra smorte di quelle larve umane il buon Morfeo disegnò
un tenue sorriso, segno inconfondibile di una rinata speranza alla vita. I
giorni, intanto, trascorrevano lenti, monotoni, uguali; unica attesa gioiosa di
quel tempo senza tempo, l’arrivo della zuppa di ortiche bollite, scondite, nere
come il fumo o come il pezzetto di pane che sembrava cotto nella fuliggine; ma
quanto era buono e quanto durava in bocca! Che scherzi ironici riserva la vita:
in Italia il nero era il colore di moda; nero l’orbace, nero il gagliardetto,
nero il domani, neri i destini; però anche qui non scherzano: nero il pane,
nera la zuppa, neri i vestiti, nera la fame, nero il tutto; e il rosso? Ma il
rosso dov’è? Verrà, celoviek, verrà, eccome verrà!
Un mattino i
prigionieri puzzolenti, lerci e infestati, furono portati al bagno, non turco
ma russo. In uno stanzone gelato, coi ghiaccioli alle finestre e la brina
spessa un dito sui vetri, i celoviek italiani si spogliarono come madre natura
li aveva generati. Senza fretta poi passarono in un similare locale attiguo dove,
a turno, ricevettero un secchio d’acqua addosso; ritornarono, quindi,
attraverso uno stretto corridoio dove il vento soffiava come all’aperto, nella
stanza-spogliatoio, e il bagno terminava così. I vestiti nel frattempo erano
stati sottoposti a disinfestazione e i celoviek, in tremante attesa e
traballanti come le foglie al vento, attesero pazientemente il turno per
potersi rivestire. Dopo mesi, e meglio di niente, anche questo era un bagno,
no? Bagno modesto, forse un poco pericoloso per sofferenti di bronchi,
enfisematosi e deboli di polmoni, ma per i sopravvissuti alle marce del davai o
ai viaggi nei treni della morte, sempre bagno era. E che bagno!
Il tempo intanto
scorreva ugualmente e nel mondo e nel lager; i giorni, brevi, si alternavano
alle notti, lunghe; l’inverno, sempre gelido e cupo, non finiva mai. Le
tragiche sorprese non erano finite per niente. Infatti un disturbo
preoccupante, inspiegabile all’inizio, sorprese non poco i celoviek in questo
primo periodo di prigionia nel lager. Un andirivieni continuo alle buche, o
cessi, procurava un fastidio incessante; una diarrea ricorrente, simile
all’acqua di un fiume in piena, colpiva sempre più persone; strani brividi,
diversi da quelli arcinoti procurati dal freddo, scuotevano gli arti e la schiena
dei diarroici. Qualcuno, per far coraggio o per scherzo, propose ai colpiti dal
malanno di trasferirsi stabilmente nel locale adibito ai bisogni corporali,
risparmiando, in tal modo, un sacco di calorie necessarie a compiere gli
innumerevoli viaggi di andata e ritorno; corse fugaci e penose che ormai non
riuscivamo più a contare tanto erano tante.
Del resto nel
locale-cesso non si stava male; odori sgradevoli non se ne sentivano per il
fatto che ogni cosa che cadeva in quelle buche o, per disgrazia, anche sui
bordi di esse, istantaneamente gelava diventando materia inodore e incolore;
l’aria poi era molto più salubre di quella che si respirava nella stanza,
perché veniva continuamente rinnovata dagli spifferi che lasciavano addirittura
passare le folate del vento che scendeva dal nord e che entrava in ogni dove,
fors’anche nelle arterie e nei cuori.
Una sera, forse più
disgraziata delle altre, una parola terribile, agghiacciante, temuta più del
gelido clima, percorse il lager da un capo all’altro, passò di bocca in bocca,
colpì come una mazzata tremenda gli uomini, le cose, tutto: tifo petecchiale,
esantematico.
I contagiati, a
decine e ogni giorno sempre più numerosi, vennero stesi per terra in un ampio
locale ma squallido, denominato lazzaretto. In poco tempo l’epidemia si diffuse
nell’intero lager e poi imperversò a lungo. In quel tempo il Manzoni fu
ricordato da tutti i celoviek; soprattutto ritornò alla mente quel capitolo dei
Promessi Sposi dove veniva descritta la peste che aveva colpito Milano e
dintorni; gli orrori del lazzaretto, i monatti e il carro che trasportava i
cadaveri; scene infernali che parevano distanti anni luce da noi, irripetibili,
forse anche un tantino frutto della fervida creatività letteraria del grande
scrittore, più che realtà vissuta. A Suzdal’ non c’era la peste bubbonica,
quella esantematica sì, con tutto il resto descritto dal Manzoni.
Incredibile, ma
vero! Anche il c.b., stremato dalla febbre e dalla fame, fu portato un mattino
dagli amici ancor sani al lazzaretto. Lì si addormentò, o almeno così credette.
Diarrea, temperatura altissima da cavallo, delirio per giorni e giorni, quanti
nessuno seppe mai dire, poi a poco a poco gli occhi ricominciarono a vedere, le
orecchie a sentire e la vita a riprendere. Alzare la testa dal duro giaciglio
era un’impresa sovrumana; girare il corpo su un fianco, impresa da scalatore di
una roccia almeno di sesto grado; posare il ventre su quel tappeto di
escrementi ghiacciati per lenire un poco il dolore delle piaghe da decubito,
una sofferenza indicibile.
Il crudele e
spietato morbo colpì prima o poi quasi tutti i prigionieri del lager; fece una
strage con migliaia e migliaia di morti ma qualche centinaio di celoviek, forse
con l’aiuto di Dio, o perché segnati dal destino, o con la forza della
disperazione e l’incrollabile volontà di resistere, di vivere, lo sconfissero e
la vita di quei pochi trionfò sulla morte. Passato il delirio, il c.b. udiva
dintorno sommessi lamenti, respiri affannosi, flebili rantoli; vedeva come in
una sera nebbiosa persone traballanti muoversi in qua e in là, simili agli
ubriachi, inebetite; fantasmi girovagare senza una meta o direzione, spesso
calpestando altri corpi che non si ribellavano o perché già morti o privi della
forza per reagire. Tutti, comunque, morti, morenti, sopravvissuti, avevano
l’aspetto di spettri, di scheletri incartapecoriti. Il pavimento assomigliava ad
un letamaio pieno di liquami giallognoli e feci di ammalati affetti da disturbi
epatici o da infezioni che tolgono la pigmentazione ai rifiuti; tutto ciò, per
lo meno, non dava nausea perché il porcaio era talmente ghiacciato da sembrare
un impiantito rivestito con materiali variegati in vetro opaco, né lordava
chicchessia; il vomito era pressoché impossibile perché nello stomaco non c’era
né cibo, forse nemmeno succhi gastrici, probabilmente il vuoto. I corpi dei
degenti, invece, assomigliavano a guerrieri indiani dipinti coi colori di
guerra. Questo è l’ultimo, il più profondo girone dell’inferno voluto da quel
boia di Stalin, pensarono in molti.
Signore, fammi
morire, non ce la faccio più - disse tra sé il c.b. alzando gli occhi in alto,
su, su oltre il soffitto, verso il cielo. Ma fu un attimo di smarrimento e
subito si riprese; quasi scusandosi e con vergogna disse a sé stesso e al buon
Dio: No, no, perdono, perdonatemi, ma che scherziamo davvero? Io voglio, debbo
vivere; sono un bersagliere del Terzo e non temo nessuno, né la morte o la
vita, né il dolore o la disperazione; Signore lasciami vivere. Forza,
bersagliere del Terzo, su con la vita e avanti coi denti e col cuore.
E con l’aiuto di
Dio e l’incrollabile volontà la vita vinse la morte. I sopravvissuti, una volta
in piedi, assumevano per ordine del nacialnik le funzioni di infermieri; poco
volentieri per amore del prossimo; consenzienti perché gli ordini non si
potevano discutere. Il compito di questi barcollanti soggetti dalle sembianze quasi
umane, cachettiche certamente, era principalmente quello di versare un po’
d’acqua, ricavata dalla neve del cortile, nelle gole riarse dei febbricitanti o
dei morenti. Medicine non ne esistevano affatto; nella fase acuta del male
anche la brodaglia di ortiche era superflua; inutile poi il parere di qualche
collega medico prigioniero.
Ogni tanto si
affacciava allo stanzone una balenottera in camice bianco - pretendeva di
essere chiamata doctor -, e con cipiglio tronfio e goffo chiedeva:
“Scolki caput,
sivodnia?” (Quanti morti oggi?).
E poi, sbattendo il
deretano troppo grosso per la porta stretta, subito spariva.
Altro compito
affidato giornalmente agli infermieri scampati, da eseguirsi all’imbrunire,
consisteva nel trasporto dei morti in cortile. Quattro celoviek - non tre
altrimenti l’Operazione Trascinamento non sarebbe riuscita per le deboli forze
a disposizione dei portantini - si occupavano di ogni cadavere: due afferravano
il corpo per le braccia, gli altri per le gambe e lo trascinavano, passando
spesso su altri corpi di morti o di moribondi, all’aperto nel centro dello
spiazzo dove le salme venivano radunate in mucchi stranamente simili a una
grossa catasta di tronchi di legno seccati al sole. Le cataste ogni tanto
scomparivano per riformarsi quasi subito. Un carro agricolo, sempre stracolmo,
tirato da un bue o da un mulo, provvedeva a trasportare gli scheletriti
celoviek nei pressi di un bianco boschetto di betulle alla periferia di Meskov
dove il necroforo compagno li cacciava in grandi fosse comuni (senza piastrino
di riconoscimento però, chissà poi perché?). Cerimonia funebre semplice, senza
pretese, ma significativa e come di abitudine nei paesi socialisti dei lager.
Finita la fase
acuta del male e il delirio, al celoviek sopravvissuto veniva ordinato di
passare dal lazzaretto in uno stanzone adiacente dove i cosiddetti
“convalescenti” ricevevano una volta al giorno, o quasi, la zuppa di ortiche e
il tocco di pane nero. Addetti alla distribuzione dei viveri erano generalmente
soldati romeni prigionieri pur loro e che, proprio per la mansione di
vivandieri, si trovavano in condizioni fisiche migliori degli altri e non di
rado spadroneggiavano su tutti. Beati loro, quei tangheri.
Anche il c.b.,
ritornato sano di mente e in via di guarigione, divenne addetto ai lavori
infermieristici. I posti lasciati vuoti nel lazzaretto dai morti venivano
subito occupati da altri ammalati, o moribondi. Quanti ricordi incancellabili
di atti lodevoli o deplorevoli, umani o bestiali, sublimi o spregevoli restano
nella memoria di chi fu testimone di quell’orrido periodo! La legge che
imperava in quel carnaio, meglio ossario, osservata dai più salvo poche
eccezioni, era: mors tua, vita mea.
Un giorno il c.b.
si accingeva a trasportare le salme nella spaziosa camera mortuaria all’aperto,
e non ardente perché ghiacciata. I morti da trasportare erano parecchi e quasi
tutti adagiati ai lati dello stanzone-lazzaretto, sul pavimento-letamaio. Tra
un viaggio e l’altro era indispensabile una sosta ristoratrice per riprendere
fiato. Seduto su un cadavere, il c.b. contava il numero dei morti che ancora
restavano da trascinare in cortile; gettava un’occhiata furtiva, interessata
non umana, ai moribondi che rantolavano sempre più debolmente e che potevano rappresentare
al termine della giornata lavorativa un sovraccarico di lavoro; poneva
attenzione a quelli che deliravano, un po’ per ascoltare le stramberie di ogni
sorta che uscivano da quelle menti malate, molto per non pensare al peggio.
Curiosità invece destavano quelli che erano stati ricoverati durante il giorno;
non era raro il caso di scoprire tra i nuovi arrivati il volto noto di un caro
amico di prigionia o di un compagno d’armi mai più rivisto dopo la ritirata dal
fronte.
Ad un tratto
l’occhio più spento che vivo si posa su un viso emaciato, scavato dalla febbre
e dal tifo, col corpo quasi nudo, immobile, rigido come in genere erano i corpi
dei morti o dei moribondi nei quali ancora si avvertiva un esile, flebile
respiro che non dava però forza alle membra da farle sembrare vive. Ma quello
respira ancora - pensò il c.b. - o così almeno pare anche se già è nella fila
dei cadaveri da trascinare in cortile; meglio andargli vicino e controllare con
più attenzione.
Rialzatosi pian
piano, scavalcando diversi corpi allineati vicino alla porta dello squallido
vano, il c.b. si avvicinò al seminudo prigioniero che già da altre mani era
stato adagiato nello spazio che prima di sera doveva essere sgombrato per
lasciar posto ai nuovi appestati. Il volto era piegato verso destra, ciondoloni
sul pavimento, e pertanto era difficile coglierne i lineamenti del viso e dar
un nome al poveretto. Quel petto nudo e privo di qualsiasi indumento o
straccio, quelle costole scarnificate ricoperte dalla sola pelle ogni tanto
erano scossi da convulsi movimenti. Appoggiata una mano sul torace, avvertiti
tenui, irregolari respiri, il c.b. si rialza in piedi ed esclama:
“Signore Iddio, ma
questo è ancora vivo; se viene trascinato all’aperto crepa prima del tempo”.
Chinatosi
nuovamente sul malato e con l’aiuto di un altro apprendista infermiere, gli
prende la testa fra le mani e lentamente, per non rompere qualcosa che sembra
oramai più fragile del vetro, la gira verso di sé e borbotta:
“Dio buono e
misericordioso, ma questo disgraziato pare Sica, assomiglia a Mario; è mai
possibile che sia lui e ridotto così? Mario, o Mario, mi senti? Sica, Mario,
Mario, mi senti? Sei Mario?”
Il compagno
socchiude gli occhi, guarda smarrito dintorno e poi con un filo di voce
sussurra:
“Sì, son Mario, son
Sica, sono io e tu?”
“Bruno, Mario; sono
Bruno, come stai?”
“Mah, e chi lo sa?”
Una coperta rubata
ad un morto, meglio dire la prima incontrata, coprì alla meglio l’amico Mario;
un poco d’acqua reperita in un gavettino saziò l’arsura che bruciava la gola
dell’amico e, infine, con l’aiuto di altri Mario fu trascinato, e con che
sforzo, in un’ala dello stanzone dove si trovavano i contagiati dal tifo,
morenti anche, ma non ancora defunti.
Poi, col tempo anche
Mario superò la fase acuta del male ed assieme ai pochi scampati, o prediletti,
riprese a vivere quella vita da bestie che ancora per altri quattro lunghi anni
fu riservata ai prigionieri da quella ancor più bestia del piccolo, grande
Padre e dai fratelli migliori nostrani.
E nel lager,
lentamente, lentamente cessarono la diarrea, la febbre e la morìa. Dopo chissà
quanto tempo, l’epidemia, in silenzio, com’era nata si spense e i pochi
superstiti ripresero a vivere con una infinita stanchezza e con una fame da
lupi, con una magrezza impressionante e con la medica classifica di distrofici
gravi. Di pari passo anche la salute, più per volere dell’Altissimo e di madre
natura che degli uomini migliorò, aiutata nello sforzo anche dal concorso della
brodaglia d’ortiche bollite e qualche altro scampolo del regno vegetale, i
cavoli in salamoia. Il sole della tiepida, corta estate russa facilitò
egregiamente il rinvigorimento della psiche, dell’intelletto, soprattutto del
fisico.
E il tempo riprese
a trascorrere alternandosi solo fra il giorno e la notte. I tetri mesi del
primo inverno bestiale erano ormai già trascorsi da un pezzo; anche il tepore
della corta stagione estiva in breve svanì e tornarono in fretta,
improvvisamente, le neve e il gelo, il freddo marosc e le furiose tempeste, le
lunghe notti e i giorni brevi. Tristezza, abulia, indifferenza verso tutti e
tutto regnavano sovrani nello sperduto lager di Suzdal’. Si rafforzavano
soltanto quei pochi sentimenti di fraterna amicizia nati nell’orrore della
guerra e fra i ricordi lieti e tristi di un recente passato.
Un giorno giunse
nel Campo la notizia della caduta del fascismo, dei fatti dell’8 settembre
1943, della sorte della guerra in Italia e nel mondo. I tedeschi e i fascisti
invadono l’Italia; Badoglio e il Re continuano la guerra scappando; gli Alleati
vincono ovunque; stravincono le armate russe. Così si ripeteva da un capo
all’altro del lager e fino all’infinito. Le notizie, le prime notizie che
apprendemmo dopo la cattura, non furono certo annunci lieti o desiderati;
servirono però a farci capire che l’umanità, con le sue poche gioie e i tanti
dolori, ancora esisteva, viveva e che anche noi prigionieri di guerra facevamo
parte del mondo. Anche nel Campo 160 di Suzdal’, forse per incanto o per volere
del fato, per reazione naturale o alimentata ad arte, avvenne quanto stava
accadendo nelle nazioni coinvolte nel conflitto e, in particolare, nella nostra
Patria in seguito a capovolgimenti storici, politici, sociali di siffatta,
enorme rilevanza. Io sto con questi, tu sei di quelli, chi non è con noi è
contro di noi e viceversa; chi desiderava star solo era con tutti e con
nessuno. Che strano modo di pensare e di agire si faceva strada nella mente
ancor debole dei poveri cristi, affamati più che di cultura, di sapere, di
conoscere, di un semplice tozzo di pane e una manciata di cibo!
Nel frattempo
Stalin, e con ragione, era ormai certo che la vittoria gli era a portata di
mano, solo questione di tempo; era altresì consapevole che un giorno o l’altro
vincitori e vinti, ricordando i bollettini di guerra dell’Armata Rossa, gli
avrebbero chiesto notizie intorno alle centinaia di migliaia di prigionieri
catturati nell’inverno del 1943. Uno di questi bollettini dello Stato maggiore
sovietico annunciava al mondo intero che nella battaglia di Stalingrado e
durante l’avanzata nell’ansa del Don l’esercito di Stalin aveva catturato
115.000 soldati italiani appartenenti all’Armir e centinaia di migliaia di
tedeschi, ungheresi, romeni, slavi, bulgari e così via. E se qualche nazione
vinta o occupata mi chiede notizie di tutti quei soldati catturati dal mio
esercito - pensò tra se l’Attila moderno - cosa gli rispondo? Dovrò pur far
vedere che anch’io sono un essere umano e dimostrare che qualche scampolo di quei
fascisti invasori passeggia ancora sul sacro suolo delle repubbliche socialiste
sovietiche, no? Il difficile sarà trovarne ancora in vita qualcuno, visto che
ho dato ordine al popolo di ammazzarli tutti. Mah! Speriamo in bene! - disse a
sé stesso il padre kolkosiano, proprio lui che tra i tanti metodi in auge nel
mondo per sterminare la gente aveva scelto quello più radicale, più pulito ed
umano, soprattutto meno dispendioso, collaudato da un ventennio e sempre in
vigore, con risultati brillantissimi, in tutti i lager sparsi nell’immensa
steppa russa: per fame e per peste.
Visto che a quei
tempi non era stata ancora ventilata l’ipotesi della lira pesante che avrebbe
risolto brillantemente il caso dei prigionieri italiani (catturati 115.000,
meno tre zeri uguale a 115, cioè il totale dei sopravvissuti), lo zar di tutte
le Russie diede ordine di svolgere nell’impero rosso una accurata e immediata
indagine per appurare la fine fatta dagli italiani e dagli altri soldati nemici
catturati. Dai lager di Oranki, di Krinovaja, di Suzdal’, di Tambov, di
Minciurinsk, n° 27, 58/C e altri le risposte che arrivarono alle orecchie di
Stalin furono sconcertanti e sconfortanti.
“Prikas (ordine):
arrestate la morte”, urlò inviperito il supremo capo del comunismo internazionale
all’Nkvd, oggi Kgb, alla nomenklatura, all’esercito; “nessun prigioniero deve
più morire, è un prikas che non ammette eccezioni”.
E l’ordine
attraversò come un fulmine tutta la steppa europea e siberiana compresa.
Dall’era delle ortiche, dei cavoli, del tozzetto di pane nero di veccie, i
prigionieri passarono di colpo all’epoca del miglio, o kascia, e del pan bianco
di grano; dalla morte inevitabile a quella naturale. Col passare dei giorni, e
col più decente, anche se scarso vitto migliorarono la salute e le forze;
rifioriva la speranza, si rianimava l’esistenza vegetativa.
E proprio in questo
periodo di rinnovamento e di inni alla vita, il c.b. mosse i primi, incerti
passi verso la nuova, mirabile cultura socialista e proletaria nonché
marxista-leninista. Inoltre apprese nomi e notizie di molti fratelli italiani
che stavano per diventare famosissimi: Ercole Ercoli o Mario Correnti, alias
Togliatti Palmiro, D’Onofrio, Grieco, Longo, Germanetto, Robotti, Rizzoli,
Fiammenghi, Guizzardi, Ingrao, i Pajetta, signora Torre e figlia, Montagnana e
altre gentili, notissime dame, gente non prigioniera ma assimilata, compagnucci
della parrocchietta33.
Un triste giorno la
signora Torre e la figlia improvvisamente scomparvero dal lager e nessuno le
rivide più, svanirono nel nulla delle rosse immensità. Una voce cattivella si
sparse fra i celoviek: erano poco fredde e insensibili, non adeguatamente
disumane e qualcuno sospettò che anche loro avessero un cuore. Cambiarono aria,
per sempre; nulla di più, forse in cerca del marito-padre che pure lui si era
perso nell’immenso impero del popolo. Altra voce maligna e che nasceva dal
niente asseriva che a Robotti fossero state assegnate, dall’uomo con le
mostrine azzurre, cioè dall’Nkvd, padrona assoluta delle nostre vite, la
metodologia dell’educazione e della rieducazione degli ufficiali italiani
prigionieri a Suzdal’; al Rizzoli la didattica viva e attiva per il
conseguimento del fine educativo fissato dagli operai e dai contadini; al
migliore-peggiore la supervisione pedagogica e il diritto sovrano, anzi
proletario, di vita e di morte su prigionieri e compagni. Radio kascia,
ovviamente, malignità, niente di più.
Il vitto, dopo
l’ordine del Generalissimo, è senza dubbio migliorato ma è scarso,
insufficiente, e la fame è maledettamente tanta, assillante, costante; fame di
giorno, di notte, sempre. Gli occhi vedono dappertutto cibo inesistente, le
orecchie sentono il cadenzato ronzio di girarrosti che non ci sono, le narici
ad ogni angolo annusano odori di leccornie che nascono dai ricordi; cuore,
mente, anima hanno soltanto fame; fame popolare o borghese, reazionaria o
progressista, fascista o marxista ma sempre fame.
Nel lager intanto
la vita trascorre con la stessa routine di sempre; l’oggi è uguale a ieri,
simile al domani. Qualche perquisizione più numerosa e pignolesca del solito, forse
per trovare qualche pensiero nascosto visto che non ci può essere altro da
scoprire; ramanzine singole e collettive; lezioncine di educazione sui tanti
doveri senza alcun diritto e alcuni colloqui bilaterali fra russi e celoviek
particolarmente insofferenti al nuovo clima distensivo e collaborativo promosso
dagli interpreti nostrani sui fatti del giorno o meglio sui propositi per il
domani. L’Alba, da foglio notizie, si trasforma in giornale; da scialba diventa
chiara, anzi chiarissima; i tramonti sempre più complessi ed oscuri. Ancora
rare ed intime le lodi al Signore; in aumento e non solo riservate le
maledizioni contro i personaggi dalle mostrine azzurre ed assimilati.
Una cosa è certa ed
evidente: nel lager la cultura germoglia a ritmi da serra; fioriscono nuove
idee colorate; crescono l’anelito e il desiderio del conoscere, del sapere;
ovunque si parla, si sparla, si dibatte, si problematizza, si chiacchiera tanto
e di tutto e di niente. Chi tace è guardato male; chi osa ribattere è visto peggio;
chi acconsente progredisce. Inoltre, il risveglio cultural-progressista e
popolare che aleggia nel Campo è più impetuoso del risveglio che la tiepida
estate imprime, da sempre, alla natura che si ridesta dal letargo invernale.
“Dalle tenebre alla luce” è il messaggio che gli agit-prop più o meno nostrani
affidano alla brezza che spira fra le mura del lager, i torrioni massicci, gli
uomini e le cose, tutto. “E quindi uscimmo a riveder le stelle”34, fanno eco
gli inebetiti celoviek frastornati e confusi, ancora sotto il terrore del
gelido marosc e della più gelida morte che da tempo ormai aveva preso domicilio
e residenza stabile nel lager di Suzdal’. E tutto fa cultura, ogni cosa sa di
cultura tranne le ortiche che hanno sapore di schifo ma son buone lo stesso,
meglio che niente.
L’Alba, non quella
che uccide la notte e precede il giorno, ma il giornale che gli attivisti del
Minculpop35 nostrano ed enkevediano hanno concepito e subito partorito nel
Campo (editore il Migliore, tipografia moscovita) per informare e soprattutto
formare gli scampati alla morìa; per istruire ed educare i bestioni ignoranti
nati e allevati nelle scuole tradizionali e borghesi; per ridare la luce ai
ciechi fascisti imperialisti e invasori, è sempre più radiosa e splendente, impregnata
di sacro e di sapere social-popolar-progressista. È come una luna piena che
illumina un cielo di stelle e il mondo, tutto e tutti; non brilla però di luce
propria, ma riflessa da un astro in terra, un sole, il sol dell’avvenire, il
che è tutto dire. Articoli di quei personaggi emergenti prima ricordati;
cronisti, redattori, reporter improvvisati, nati per l’occasione e men per
vocazione, nostrani e assimilati, delatori infami esclusi, riempiono di parole,
di concetti, di elucubrazioni mentali il giornale e saziano abbondantemente il
desiderio di tutti, o quasi tutti, di conoscere ed amare i sorgenti stregoni
del materialismo storico e più o meno dialettico. Non c’è pagina che non ponga
in evidenza le gesta dei totem, cioè dei leaders o tovarisc nacialnik della
dittatura democratica del proletariato, delle guerre di liberazione, del
trionfo del socialismo, prima, che diventa poi subito comunismo dopo.
Gli appelli
lanciati a destra e a manca, ad ovest soprattutto, a nord meno, ad est per
niente, appelli ovviamente da sottoscrivere, non si contano più. Quelli contro
gli uni e gli altri si sprecano, ma su tutti primeggia il primo appello
inventato, quello cioè per dare Trieste alla Iugoslavia e ai compagni titini,
fulgida pietra miliare sfavillante ed umiliante insieme della misera storia
appellante del lager 160 di Suzdal’. Chi non firma gli appelli è reazionario,
fascista e revanscista; chi prende tempo e dice “mah” è meglio che niente, però
da vigilare; chi firma invece è democratico e progressista. Quanto lavoro
cerebral-culturale per i fuoriusciti addetti alla rieducazione degli ufficiali
italiani prigionieri; quale slancio promozionale e innovativo distingue i
ravveduti; che rottura e che pena per i refrattari testoni incalliti; che
strazio e che prezzo per quel gruppetto d’ingenui idealisti che vive
“contrapponendo a tutti e a tutto, l’alta fede dei propri ideali cercando
d’indicare così anche agli incerti e agli imbelli la via del dovere e il
principio della inviolabilità del prestigio della Patria”. Roba da zolfanai,
oggi.
Ogni giorno si
avvicinano sempre più e l’ora della liberazione dei popoli oppressi e il
trionfo del comunismo; la vittoria del proletariato contro la borghesia; la
democrazia democratica dello stalinismo; la repubblica progressista e popolare;
i tribunali del popolo e il collettivo collettivistico; la vittoria degli umili
e degli oppressi, degli operai e dei contadini. Ogni tanto, anzi spesso, si
canta “bandiera rossa la trionferà, viva la Russia e la libertà”.
Il c.b., che
desidera restare soltanto e semplicemente un ufficiale del 3° Bersaglieri, si
arrovella neuroni e cervello perché non riesce a capire se è un proletario o un
borghese, un umile od un oppresso; se conviene di più classificarsi come
operaio o contadino; se il potere del popolo anche in Italia sarà poi così
bello come si vede qua. Chissà!
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