LA CAMBE - «Erano le 6,30 del
mattino, stavo nel bunker, fuori c' era bruma, freddo, e un grande silenzio.
Avevamo passato settimane a rinforzare le difese sulla spiaggia, e anche quello
sembrava un giorno come tanti. Aspettavo che il grigio si diradasse, poi a un
tratto ecco l' apparizione. La flotta al largo, sconfinata, irreale. Allora ho
pensato: Mein Gott, ci sono più navi nemiche che soldati nostri. Io e i miei
Kamaraden ci siamo guardati in faccia e ci siamo chiesti: e adesso? Ma non c' è
stato tempo di pensare, perché subito è cominciato l' inferno. L' artiglieria
navale ha vomitato una tempesta di fuoco». Franz Gockel aveva diciassette anni
il 6 giugno del 1944, e stava sopra la spiaggia di Omaha, con una postazione di
mitragliatrici. Ha tenuto la posizione per sei ore, sparando tutte le
munizioni, prima di essere travolto. Sessant' anni dopo, in una mattina di
pioggia sottile, narra la sua storia al cimitero militare tedesco di La Cambe,
il più grande della Normandia, dove incontra gli ex nemici per una cerimonia di
riconciliazione. è un uomo rotondo, abbronzato, dai capelli argento. «La divisa
- sorride - mi stava così larga che quando andavo a comprare latte a
Colleville, le donne mi dicevano: ma sei ancora un ragazzino...». Piove sulle
croci di granito, sull' Armata perduta del Reich millenario, sulla memoria dei
vinti che ritorna. C' è qualcosa di nuovo oggi in Normandia. Non è solo il
ricordo della Liberazione, è anche la liberazione del ricordo. Quello dei
tedeschi, per cominciare, che persero 50 mila uomini nella battaglia. Delle
loro storie si parla per la prima volta ufficialmente. Ci sono voluti 60 anni.
Un tempo fisiologico, quello che serve al racconto per diventare storia. Il
tempo in bilico tra la memoria degli ultimi testimoni viventi e il rischio di
amnesia dei giovani. è anche questo che fa del 2004 un anniversario speciale.
«Diciassette anni avevo, la Normandia era il mio primo viaggio lontano da casa,
mi sentivo un privilegiato ad andare in un posto così», racconta Gockel, che ha
raccolto questo suo pezzo di vita in un libro dal titolo "Le porte dell'
inferno". Da allora è tornato tante volte, a cercare tombe e notizie di
compagni caduti. Ma così ha incontrato veterani alleati, e con loro ha stretto
amicizia. «Un giorno ho trovato un americano che era stato sotto il tiro della
mia mitragliatrice, e che la sera del 6 giugno aveva dormito nel letto dove io
avevo passato la notte il 5. Da allora sono stato tante volte negli Usa». Le
croci di La Cambe non sono né bianche né erette. Sono di pietra scura,
prostrate a terra, sembrano umiliarsi nell' accettazione di un nero destino.
Croci appena abbozzate, minimali, chiuse in se stesse come un fiore secco.
Delle placche, quasi. Non le vigila nessun armato, e sotto ognuna di esse non
c' è un Caduto solo, ma due. In tutto 20 mila morti. è il doppio del
fotografatissimo cimitero americano di Coleville, ma lo spazio occupato è la
metà. La Cambe non è nemmeno un luogo di silenzio. Sta ai bordi dell'
autostrada Parigi-Cherbourg, è sfiorato dal rombo dei camion. Non è sulla linea
del fronte, ma in retrovia. Non emerge in un luogo nobile e panoramico. La
Cambe è il cimitero dei vinti. Arrivano soldati americani in divisa da
cerimonia, guardano intimiditi le tombe degli ex nemici, scoprono quanto
giovani erano, almeno la metà di essi aveva meno di vent' anni. Hitler, troppo
impegnato in Russia, aveva spedito in Normandia vecchi e bambini. Una guida
traduce agli americani la scritta in pietra che dice: «Dunkel ist, scuro è il
cielo del soldato», fa capire che nel cimitero dei vinti l' orrore della guerra
è più esplicito, non rischia di sdoganare altre guerre. Il paradosso è che nei
cimiteri tedeschi di qui capita spesso di trovare più visitatori americani che
tedeschi. La Germania ha ancora paura della propria memoria. Così, a La Cambe
non andrà nemmeno Gehrard Schroeder, che pure è il primo cancelliere invitato a
una celebrazione del D-Day. Il capo del governo tedesco visiterà solo Ranville,
unica sepoltura che accomuna vincitori e vinti. «Antipatriota!» gli grida la
destra e la stampa antigovernativa. Squallide speculazioni, rispondono a
Berlino. Ma dietro c' è anche l' imbarazzo per un luogo che conterrebbe,
dicono, i corpi di alcune SS. Il paese di La Cambe è segnato da questi tristi
inquilini, non partecipa alla cuccagna del ricordo trionfante che inonda di
miliardi la Normandia. Non ha ristoranti, negozi di souvenir, non è traversato
da orde di visitatori. Un' autostrada lo separa dal cimitero, una barriera che
è anche mentale. La gente non nutre più animosità verso il luogo delle croci
nere, ma di certo lo circonda di una pudica indifferenza. «Non ci vado e non ci
andrò mai - spiega una donna - ma non mi indigno con chi ci va. Anzi. I giovani
non devono pagare per i padri». Quindici chilometri più a nord, il cimitero Usa
di Colleville-sur Mer pare un altro pianeta. Togli l' erba rasata, e la
differenza è impressionante. Croci candide, luminose, erette, protette da
centinaia di uomini, circondate da felpato silenzio, visitate da migliaia di
persone, onorate da capi di stato, accudite da accompagnatori, giardinieri,
guardiani, archivisti, muratori. è una macchina che marcia a pieno regime,
ammonisce l' Europa, attira folle sulla battigia per il display della vittoria.
Sono le croci della causa giusta, il simbolo di una guerra pulita. Croci di
prima linea. Vicine al cielo, in cima alla collina, con vista mare. A Saint Lo,
città rasa al suolo dai bombardamenti alleati, il tedesco Volker Hempfling
dirige in nome della pace un coro di bambini in cattedrale. Racconta: «Sono
nato nel gennaio del '44, mio padre era in guerra sul fronte russo. Quando è
tornato dalla prigionia, avevo cinque anni. Sono andato a prenderlo alla
stazione con una sua vecchia foto in mano». Rammenta l' amnesia generale nella
Germania del dopoguerra, quando i corsi di storia «si fermavano a Napoleone».
Ma proprio a Sain Lo senti anche un' altra memoria che torna, ritrova il suo
orgoglio, riprende quota all' ombra di una celebrazione monopolizzata dagli
americani. è quella dei civili francesi, che ebbero 20 mila morti nello sbarco,
un tributo di vite quasi pari a quello dei soldati Usa. Per contarli, devi
andare nei cimiteri dei villaggi, all' ombra dei campanili, in posti che oggi
nessuno visita. A Saint Lo, chiamata "La capitale delle macerie", le
bombe alleate fecero ottocento morti in poche ore perché nessuno si aspettava
un attacco così lontano dalla costa. «Eravamo così spaventati che non sentivamo
né la fame né la sete» racconta Geneviève Pasquette, allora bambina. L'
ufficiale tedesco che alloggiava in casa sua l' abbracciò prima di andarsene
per sempre e dire: che disastro per il Reich. Fu l' inferno: i tedeschi da una
parte, gli alleati dall' altra e la gente intrappolata in mezzo. Due giorni
dopo, l' 8 giugno, la città si scoperse disseminata di cadaveri. A Mayenne, nel
sud della regione, Odette Lannéval stava partorendo nel granaio di una fattoria
quando le bombe cominciarono a cadere. Oggi ha 90 anni e racconta: «Invece di
spingere, gridavo tutto il tempo: gli aerei, gli aerei! E il medico, un brav'
uomo, mi sgridò: si occupi del suo affaire, madame». Nacque Maryvonne, bionda a
caschetto, che oggi le accarezza la mano. Anche Caen fu coventrizzata. L'
allora studente Christian Lemonnier che ha lavorato come barelliere al centro
di emergenza: «Nell' astanteria c' erano corpi mutilati distesi per terra.
Arrivò una bambina che urlava, sotto la coperta vedevi la gamba sanguinante
tranciata di netto. Una donna aveva avuto gli occhi strappati dalle orbite per
lo spostamento d' aria. In via Gémare bisognò tagliare in due un cadavere che
impediva il ricupero di una persona viva sotto le macerie. Ovunque, uno
spaventoso e pestilenziale spettacolo di morte». Normandia, la memoria degli
altri.
PAOLO RUMIZ
Brano tratto da: Repubblica.it Archivio - 05 giugno 2004 -13 sez. POLITICA ESTERA
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