Il 13 settembre 1943 una pattuglia della 3^ Compagnia moto
del LI Btg. AUC si scontrò con un piccolo reparto tedesco intento a
saccheggiare un deposito italiano a Trani.
Una scaramuccia come tante in una guerra e senza gravi conseguenze, che noi ricordiamo per due fatti: il primo
che i tedeschi, abituati a spadroneggiare e trovare (quando li trovavano..)
soldati italiani demoralizzati e pronti ad arrendersi alla sola loro
vista, ebbero la sgradita sorpresa di trovarne
di diversa indole e dovettero fuggire prontamente; il secondo che il
Battaglione ebbe i suoi primi due feriti in combattimento. Uno di questi due
era Leone Orioli, che da quel giorno celebrò quella data, insieme al suo
fraterno amico Gianni Recchi che quel giorno ci era nato, come sua seconda data
di nascita e si scambieranno gli auguri reciproci per una intera vita, sino al
2008 quando Leone precedette di pochi mesi Gianni nel Raduno in cielo dei
Ragazzi del Cinquantunesimo.
Questo brano è tratto dal libro "Montelungo. Il
riscatto. Storia del LI Battaglione Bersaglieri. febbraio 43- maggio 1945"
di Leone Orioli, Editore Bonanno.
Paolo Farinosi
13 settembre 1943 - In
pochi giorni intanto era stata rapidamente allestita, a nord di Bari, una
robusta linea difensiva, protetta da sole due palizzate: una sola apertura
mobile, posta sulla litoranea, consentiva, volta a volta, l’ingresso agli
automezzi militari o, comunque, a quelli regolarmente autorizzati. La mattina
del 13 settembre 1943, dal Comando Divisione Costiera di Bari, giunse con una
piccola autovettura un capitano di artiglieria, inviato in missione speciale
per accertare, con la miglio- re precisione possibile, la posizione e la
consistenza dei reparti tedeschi, a nord della zona fino a quel momento tenuta
sotto il controllo volante delle nostre pattuglie Questo ufficiale chiese di
essere scortato e protetto da una pat- tuglia di bersaglieri. La nostra
squadra, designata pattuglia di scorta per quella missione, partì quella
mattina alla volta di Trani, bella cittadina, toccata altre volte in precedenza
dalle nostre pattuglie, ultimo confine ritenuto ancora accessibile. Si sapeva
infatti che nella vicina Barletta si era
insediato un forte distaccamento tedesco, che aveva disarmato il presidio
militare italiano. Il comando della pattuglia era stato affidato al tenente
Nai, al quale era stato affiancato il sergente Riccardi. Il bravo, attivo
sergente Giuseppe Riccardi, era ben conosciuto da tutti gli allievi della terza
Compagnia, per le sue doti di ottimo sottufficiale, per un suo caratteristico
comportamento, per il suo curioso modo di parlare. Era figlio di italiani
all’estero, vissuto per anni in Francia, aveva qualche difficoltà ad esprimersi
in lingua italiana corretta. Intendiamoci, si faceva intendere benissimo, ma
certe sue espressioni colorite erano divertenti. “Stringi i polpi pappagallo”,
era il suo incitamento in campo sportivo, quando intendeva spronare gli allievi
a tendere i muscoli con maggiore intensità. Di forte fibra fisica, aveva il
busto piuttosto lungo e le gambe visibilmente corte. Per questo suo aspetto e
struttura, che condizionava un poco anche il suo modo di correre, quel burlone
di Gianni lo aveva fotografato con immediatezza e soprannominato “Paperino”, e
Paperino era diventato per tutti noi. La pattuglia giunse in mattinata a Trani.
In quella cittadina era di stanza un reggimento del Genio, con effettivi di
circa duemila soldati. La vita scorreva tranquilla in quella bella, ampia
caserma. Sistemammo le motociclette e l’autovettura dell’ufficiale in missione
nel cortile dell’edificio. Annoto che il tenente Nai, come ha fatto in altre
occasioni, mi affida in custodia le chiavi dell’accensione della sua monoposto.
Nelle moto di noi bersaglieri non c’è bisogno di chiavi per l’accensione del
motore. Accolti cordialmente dagli ufficiali e dal comandante del reggi- mento,
prendemmo posto nel locale messo a disposizione, facendo subito amicizia con
quei soldati. La pattuglia aveva svolto il suo compito di scorta e protezione
per l’andata: ora si doveva attendere che l’ufficiale portasse a termine la sua
indagine, pronti ad accogliere ed eseguire le sue disposizioni, per poi
scortarne il ritorno a Bari. Eravamo dunque in fase di attesa, si cercò quindi
di passare il tempo nel modo migliore. Io avevo intanto notato che i magazzini
della caserma erano ben forniti di materiale; a me interessava il magazzino
delle scarpe, particolarmente degli scarponi, perché i miei avevano le suole
che, a ogni passo, si aprivano come le fauci di un coccodrillo, rendendo
naturalmente difficoltosa la camminata. Il mio capitano non aveva potuto
darmene un nuovo paio, non avendo scorte a disposizione. Feci subito richiesta
all’ufficiale addetto, e poi anche al comandante del reggimento, per avere un
paio di scarponi nuovi, visto come erano ridotti i miei. Mi fu risposto,
nonostante avessi insistito nella mia richiesta anche con richiami alla
particolare emergenza del momento, che per le rigide norme militari vigenti al
riguardo, non potevo essere accontentato: io non facevo parte dell’organico del
reggimento. Siamo dunque in attesa nella caserma del Genio. Giunge d’improvviso
di corsa un soldato che urla. “I tedeschi! Portano via gli automezzi dal nostro
deposito”. Saltiamo tutti d’impulso sulle motociclette e rapidissimi ci avviamo
sulla strada diretti al vicino edificio che ci viene indicato come deposito
degli automezzi. Siamo in colonna. Davanti a tutti il sergente Riccardi, io
subito dietro e poi in ordine tutta la pattuglia, Gianni, Mario, Giorgio,
Edoardo e gli altri. Nella furia del momento non ho pensato di rendere al
tenente Nai le chiavi della sua moto. Non è stato quindi in grado di seguirci
ed esprimerà poi il suo vivo disappunto, con un aspro rimprovero a me,
colpevole di averlo costretto all’inattività. Rimprovero duro, ma subito attenuato
dalla disposizione benevola dell’ufficiale e per la chiara evidenza della mia
involontaria omissione. La pattuglia si avvicina, notiamo subito, anche da
lontano, un automezzo già sulla strada, appena fuori dal cancello del deposito:
i tedeschi vi stanno armeggiando sopra. Appena vedono sopraggiungere in moto la
pattuglia, abbandonano il camion e, rapidissimi, si raccolgono sulla loro
camionetta posta sul davanti dell’auto- mezzo appena requisito. Con le armi in
pugno i tedeschi, visibilmente tesi e preoccupati (li vedo chiaramente, siamo
ormai molto vicini), attendono una nostra mossa. Hanno evidentemente
riconosciuto i bersaglieri di Bari, e sanno che possono essere pericolosi.
Hanno ragione siamo incoscienti, decisi, quindi pericolosi! Riccardi, davanti a
me, a venti/trenta metri dai tedeschi, ferma la moto. Scende, non pensa che la
pattuglia intera, ancora in sella in colonna sulla strada è un facile obiettivo
per i tedeschi. D’impulso afferra il
Beretta dalla tracolla e lo alza sopra la testa, rapidamente, in un chiaro
gesto di minaccia, e i tedeschi sparano immediatamente. Io vedo sgranarsi sul
muro di cinta del deposito la scarica dei proiettili, a pochissima distanza
sopra le nostre teste. La tensione ha fatto sbagliare i tedeschi, una mira più
calma avrebbe certamente procurato gravi danni alla pattuglia. In un attimo
siamo tutti a terra, apriamo il fuoco a nostra volta: io sono steso accanto a
Riccardi, su un piccolo ammasso di ghiaia, gli altri, dietro, sparano, chini o
ritti, valendosi della protezione degli alberi del viale. Riccardi è sulla mia
sinistra, un poco più avanti sul piccolo cumulo di sassi sul quale siamo quasi
aggrappati. Riccardi spara furioso con il suo mitra, vuole avere il campo di
tiro più aperto e cerca una posizione più alta, o più comoda sulla ghiaia;
spinge allo- ra con il piede sui sassi per tirarsi più su, ma non trova presa
sufficiente e io vedo sulla mia sinistra le sue gambette corte sparare calci
furiosi, senza risultato. Dire che, in un momento critico come quello lo
scalciare di Riccardi mi ha fatto sorridere, può apparire eccessivo, fu una
bravata, ma io sorrisi. Il fracasso era infernale. Confesso che ero un po’
preoccupato dal fuoco dei compagni della pattuglia che erano dietro di noi: io
e Riccardi eravamo infatti sulla strada tra i tedeschi e il resto della
pattuglia. Vedevo la camionetta tedesca impegnata nel tentativo di avviar- si,
per sottrarsi al nostro tiro e quasi nello stesso momento avvertii un piccolo
colpo alla nuca; sorpreso portai la mano sul punto toccato (il colpo era stato
lieve, nessun dolore) e la ritirai piena di sangue. Un poco perplesso attesi un
momento a capo chino: non avevo dolore, né altri sintomi, eppure era chiaro che
ero stato colpito da qualcosa. Non avvertivo nulla di preoccupante, così, quasi
tranquillo, rialzai la testa e ripresi in mano il mio moschetto. La camionetta
tedesca era ormai lontana, la sparatoria cessò, la scaramuccia era terminata.
Lievissimi i danni sopportati dalla pattuglia, esplose alta la soddisfazione
per avere sventato il tentativo tedesco di sopraffazione. Ci fu festa attorno
ai bersaglieri, mentre una premurosa infermiera mi portò dal medico della
caserma per una medicazione. Oltre a me, Sergio Agus aveva riportato una
ferita, fortunata come la mia: era stato
colpito da un proiettile alla mano destra che sosteneva il moschetto, gli aveva
lasciato una riga tra il pollice e l’indice, quindi vicinissima alla guancia
sulla quale appoggiava il moschetto in posizione di tiro. Mentre mi medicava,
il medico disse: “Girati che ti voglio guardare in faccia. Porta una candela a
S.Antonio, la pallottola ti ha lasciato la riga nei capelli”. La pallottola mi
aveva appena sfiorato la nuca! Nel tempo mi sono sempre chiesto come, nella
posizione in cui mi trovavo, una pallottola dei tedeschi abbia potuto sfiorarmi
la nuca in quel modo. Non direttamente certo, mi avrebbe colpito, magari di
striscio, ma su un lato della fronte; forse di rimbalzo ma, anche in questo
caso non con una traiettoria così orizzontale. Non mi posi allora questo
interrogativo, nessuno ci pensò; ci ho riflettuto dopo, come ho detto, e ho
ricordato che io e Riccardi, sulla strada, eravamo di fronte al cancello del
deposito, proprio in linea diretta con il cancello e il piazzale interno del
magazzino dove avevo visto correre dei soldati, e questa linea era
perfettamente compatibile con la traiettoria del proiettile che poteva avermi
feri- to in quel modo alla nuca. A quel punto è lecito chiedermi se mi ha
sparato qualcuno all’interno del deposito. Non voglio pensarci più. Rammento
che quel burlone di Gianni, ricordando Trani, che lui chiamava la sacca di
Trani, commentava, ridendo: “Leo è diventato un eroe, ferendosi con il filo
della frizione…”. Grande Gianni! Il 13 settembre era il suo compleanno! A
distanza di oltre sessanta anni, il 13 settembre di ogni anno ci scambiamo gli
auguri, io a lui per il compleanno effettivo, lui a me, perché, dice, quel
giorno sono nato una seconda volta. Tornammo alla caserma da dove eravamo
partiti per correre contro i tedeschi, accolti festosamente dai soldati e dagli
ufficiali. C’era anche il tenente Nai che, prima mi rimproverò per la nota
questione delle chiavi, poi mi abbracciò con trasporto, chiaramente commosso e
felice di vedermi sano e salvo, pur con una picco- la fascia in testa. Il
comandante del reggimento venne a congratularsi con noi, e, cosa
particolarmente gradita, ritenne di poter ignorare le rigide norme militari,
prima addotte, autorizzando l’ufficiale addetto a consegnarmi un paio di
scarponi nuovi, fiammanti. A questo punto però, l’obiettivo speciale della
missione doveva essere portato a
termine: scoprire dove era e soprattutto che consistenza aveva la presenza
tedesca. Noi avevamo visto un piccolo gruppo che era fuggito chiaramente verso
Barletta, la cittadina subito più a nord di Trani. Il capitano, e il sergente
Riccardi che lo avrebbe accompagnato nella missione, si prepararono per fare
una incursione a Barletta, naturalmente acconciati in modo da non farsi
riconoscere come militari, ed essere invece confusi tra i comuni abitanti del
luogo. Si travestirono da ferrovieri e partirono in bicicletta alla volta di
Barletta: noi sorridemmo alla vista di Paperino ferroviere, lui, imperterrito,
non se ne dette per inteso. Nella caserma aspettammo il ritorno dei due
coraggiosi militari, alternando momenti di ansia a momenti di speranza:
tornarono finalmente, a missione compiuta. La pattuglia si mise finalmente in
moto verso Bari. Il viaggio di ritorno fu piuttosto movimentato; lungo il
percorso si correva velocemente, attenti alla strada, ma anche col capo a
guardare spes- so il cielo, in costante allarme per difenderci in tempo da
possibili incursioni degli aerei tedeschi. Diverse volte fummo infatti
costretti a uscire rapidamente dalla strada litoranea per trovare riparo nei
campi. Quel pomeriggio, come ho detto, il viaggio fu abbastanza movimentato;
ricordo al riguardo il commento di quel capitano, al termine della missione. Mi
salutò con una carezza sul volto, e mi disse: “Quante ne abbiamo passate, oggi,
figliolo…”. Il momento del ritorno al nostro posto di blocco merita un
commento. La notizia dello scontro a Trani era naturalmente arrivata: il
generale Amato aveva già espresso al comandante del battaglione e al capitano
Castelli apprezzamento ed elogio per il comporta- mento e il morale della
pattuglia. Si sapeva dei due feriti: si trattava di ferite leggere, ma, in
guerra (me ne accorsi quel giorno), le notizie rimbalzano e assumono in
progressione una gravità sempre maggiore, non giustificata dalla realtà del fatto,
ma dalla distanza dalla quale la notizia proviene. Ero in testa alla pattuglia
e correvo veloce, quando giungemmo in vista del posto di blocco. Resta, da
allora, indelebile in me la prima immagine che scorsi da lontano: la palizzata
mobile che chiudeva il posto di blocco era
aperta, in mezzo al varco solo, immobile, in piedi c’era il mio
capitano. Mi aspettava. Gli giunsi vicino, mi fermai, e, ridendo, alzai la
gamba e gli feci vedere gli scarponi nuovi. Non rise il capitano, commosso e
preoccupato mi disse secca- mente: “Vai subito dal dottore, e poi va’ a letto”.
Lì per lì rimasi male, poi capii. Sono convinto che in quel momento avrebbe
voluto abbracciarmi, felice di vedermi sano e salvo dopo il timore che aveva
provato per me nella lunga attesa del mio ritorno alla base. Ma doveva dominare
il suo impulso: era a suo avviso un segno di debolezza da controllare: uno
sfogo tradotto in espressione rude e burbera. Caro, grande “papà Enea”,
inflessibile come sempre (con se stesso), e trepidante per i suoi ragazzi. Il
battaglione bersaglieri aveva avuto i suoi primi due feriti nella guerra di
liberazione.
Brano tratto da: "Montelungo. Il riscatto. Storia del LI Battaglione Bersaglieri. febbraio 43- maggio 1945" di Leone Orioli, Editore Bonanno.
Leone Orioli
Bersagliere del secondo Risorgimento Italiano
Ass. LI Btg. Bersaglieri AUC "Montelungo 1943"
Progetto cinquantuno
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