Un saluto cordiale a tutti, al Sindaco e, attraverso di lui,
ai cittadini di Casoli, ringraziandoli per l’accoglienza così calorosa, aperta
e affettuosa per la Repubblica.
Un saluto al Presidente della Regione, alla Vicepresidente
della Camera dei Deputati, al Vicepresidente del CSM, a tutti i sindaci
presenti.
Un saluto particolare all’Ambasciatore del Regno Unito,
all’Incaricato d’Affari della Polonia, ringraziandoli per la loro presenza.
Mi rivolgo ai partigiani e ai veterani della Brigata
Maiella. Abbiamo sentito poc’anzi, ancora una volta, ricordare il valore e il
contributo che hanno dato alla storia del nostro Paese.
Vi è una storia che viene non soltanto trasmessa ma
testimoniata dal vostro impegno, raccolto anche nell’ANPI.
Vi è un significato particolare nel ricordare la
Liberazione, il 25 aprile, qui a Casoli. Sono molto lieto di poterlo fare
perché Casoli è stato uno dei centri nevralgici della Resistenza in Abruzzo, e
celebrare qui la festa della Liberazione consente di sottolineare le pagine di
storia, non sempre adeguatamente sottolineate e conosciute, scritte dalla
Resistenza nel Mezzogiorno d’Italia.
In questa Regione così bella e così fiera si svolsero, tra
il 1943 e il 1944, alcuni degli episodi più drammatici e decisivi della lunga e
sanguinosa guerra per liberare l’Italia dal nazifascismo e per restituire il
nostro Paese al novero delle nazioni democratiche e pienamente civili.
Da Ortona s’imbarcarono verso sud il Re e i membri del
governo Badoglio, abbandonando precipitosamente Roma al suo destino di
occupazione tedesca.
Sul Gran Sasso fu detenuto e poi prelevato dai soldati
tedeschi Benito Mussolini con un evento che portò alla nascita della Repubblica
di Salò, che portò lutti e sangue tra gli italiani, sotto il controllo pieno e
incondizionato della Germania nazista.
La linea Gustav, fortissimo caposaldo della difesa tedesca
tagliava in due l’Italia, dall’Adriatico al Tirreno, e riuscì a fermare
l’avanzata degli Alleati verso Roma.
Il “fronte italiano”, come venne chiamato dagli anglo-americani,
si stabilì, per lunghi e durissimi mesi, tra Ortona, Cassino e Minturno,
attraversando queste terre e queste montagne di cui oggi noi apprezziamo la
grande bellezza ma che allora videro immani tragedie.
Le battaglie che si combatterono in Abruzzo, sul versante
adriatico, nel 1943, furono tra le più aspre di tutto il conflitto sul
territorio italiano. Ortona venne soprannominata “la Stalingrado d’Italia”.
La guerra, combattuta per anni in fronti lontani – Africa,
Grecia, Balcani, Russia – irrompeva fragorosamente nel territorio italiano,
coinvolgendo con il suo carico di distruzione e di morte la popolazione
italiana.
Iniziarono i bombardamenti aerei, i feroci combattimenti
terrestri. E poi, per i civili, la barbara sequenza di saccheggi, deportazioni,
sfollamenti, rappresaglie e stragi.
In quel periodo la regione d’Abruzzo, con i suoi abitanti,
visse una vera epopea, tragica e insieme eroica, diventando – insieme alle aree
limitrofe – il teatro di operazioni belliche di primaria importanza per le
sorti della guerra.
Lungo la linea Gustav si riproduceva, in una scala ridotta,
il conflitto mondiale che opponeva la Germania hitleriana e i suoi marginali
alleati europei, a eserciti venuti da ogni parte del mondo: inglesi, americani,
polacchi, canadesi, neozelandesi, nordafricani, indiani…
Tra queste montagne, alte e innevate, sulle pendici del Gran
Sasso, nelle valli della Majella, tra i paesi e i borghi d’alta quota, nacquero
spontaneamente nuclei del movimento di Resistenza al nazifascismo. I primi in
Italia.
Tra essi vi erano intellettuali, contadini e pastori,
militari tornati dal fronte, carabinieri. C’erano antifascisti di lungo corso
ed ex militanti fascisti, che si sentivano delusi e traditi. C’era tanta gente
semplice, decisa a difendere il proprio territorio dai saccheggi e dalle prepotenze.
La riconquista della libertà e dell’onore ne costituiva l’elemento unificante.
L’8 settembre del 1943, con le sue tragiche conseguenze,
aveva rappresentato il simbolo più evidente – e, per alcuni aspetti, grottesco
– della disgregazione dello Stato fascista.
Ma in molti cuori e in molte coscienze l’adesione al
fascismo si era già frantumata. A partire dai campi di battaglia, in Africa o
in Russia, dove uomini male armati e male equipaggiati erano stati cinicamente
mandati allo sbaraglio per gli sciagurati e velleitari sogni di potenza e di
conquista della dittatura.
L’occupazione nazista – spalleggiata dai fascisti di Salò,
con i suoi metodi barbari e disumani, con le rappresaglie, le torture, le
deportazioni, la caccia agli ebrei, le stragi di civili – aprì definitivamente
gli occhi della popolazione sulla natura oppressiva e violenta del fascismo.
Non era, quella fascista, la Patria che aveva meritato il
sacrificio eroico di tanti soldati italiani. La Patria, che rinasceva dalle
ceneri della guerra, si ricollegava direttamente al Risorgimento, ai suoi
ideali di libertà, umanità, civiltà e fratellanza.
Non fu, dunque, per caso, come ci ha raccontato con
efficacia il professor Marco Patricelli, che ringrazio per il suo intervento
interessante e coinvolgente, che gli uomini della Brigata Maiella scelsero per
sé stessi il nome di “patrioti”. La stessa denominazione dei giovani che
rischiavano la morte in nome dell’Unità di Italia.
La Resistenza fu un movimento corale, ampio e variegato,
difficile da racchiudere in categorie o giudizi troppo sintetici o ristretti.
A lungo è stata rappresentata quasi esclusivamente come
sinonimo di guerra partigiana, nelle regioni del Nord d’Italia o nelle grandi
città.
E’ certamente vero che le “bande armate” operanti al
Centro-Nord, costituirono il fenomeno più ampio, evidente e caratteristico
della guerra di Liberazione ed è giusto ricordarlo.
Ma gli studi storici hanno, via via, allargato l’orizzonte
al contributo fondamentale che alla Resistenza diedero le forze armate
italiane. Sia nei teatri di guerra lontani – ed è importante ricordare i
drammatici episodi di Cefalonia, Coo e Corfù- sia sul territorio nazionale,
dove circa 260 mila italiani combatterono a fianco degli Alleati, partecipando
all’avanzata. Il prezzo pagato, tra gli italiani, fu di circa 21 mila morti e
19 mila dispersi.
Il Generale Clark, soldato piuttosto ruvido e non certo
avvezzo ai complimenti, riconobbe che «I quattro gruppi di combattimento
italiani e i partigiani sostennero una parte importante nella vittoria, avendo
così l’onore di partecipare alla liberazione del Paese».
Da qualche tempo, e doverosamente, gli storici hanno puntato
l’attenzione anche sui militari italiani deportati nei campi di concentramento
in Germania, in condizioni terribili, per il loro rifiuto di servire sotto le
insegne di Salò e dell’esercito nazista. A loro venne persino negato lo status
di prigionieri di guerra.
Furono più di seicentomila, una cifra enorme. Tra di loro
molti generali e ufficiali superiori. Pochi cedettero in cambio di cibo e di
condizioni di vita più accettabili. La stragrande maggioranza, la quasi
totalità, rimase compatta, nonostante la fame, i patimenti, il freddo e i
maltrattamenti. Circa cinquantamila non fecero più ritorno.
Va rammentato anche che il movimento della Resistenza non
avrebbe potuto assumere l’importanza che ha avuto nella storia d’Italia senza
il sostegno morale e materiale della popolazione civile.
Per essere “resistenti” non era necessario imbracciare il
fucile. I terrificanti proclami tedeschi promettevano la fucilazione immediata
e la distruzione della casa per chiunque avesse sfamato un soldato alleato,
nascosto un renitente alla leva, aiutato un ebreo, sostenuto una banda
partigiana. E i nazisti passavano con crudeltà dalle parole ai fatti. Senza
fermarsi davanti a donne, bambini e anziani inermi. Chiunque, in quegli anni
foschi, sfidò la morte con coraggio e abnegazione merita pienamente la
qualifica di resistente.
Come notava con molto acume Aldo Moro, in un discorso del
1975, il contributo delle popolazioni permise alla Resistenza di superare «il
limite di una guerra patriottico-militare, di un semplice movimento di
restaurazione prefascista». E di diventare «un fatto sociale di rilevante
importanza».
Una considerazione che getta ulteriore luce anche
sull’importante contributo alla lotta di Liberazione delle popolazioni
meridionali. Le tante insurrezioni, da Napoli a Matera, da Nola a Capua, alle
tante avvenute in Abruzzo, attestano la percezione da parte degli italiani
della posta in gioco: da una parte i massacratori, gli aguzzini, i persecutori
di ebrei; dall’altra la civiltà, la libertà, il rispetto dei diritti
inviolabili della persona.
Nelle parole dell’anziana donna abruzzese, citata da
Patricelli, fucilata per aver sfamato un inglese, c’è racchiusa molta parte del
senso della storia della Resistenza italiana: più che approfondite teorie
politiche, coltivate dalle élite, era il riconoscimento della comune
appartenenza al genere umano a costituire l’assoluto rifiuto a ogni ideologia
basata sulla sopraffazione, la violenza e la superiorità razziale.
Nella lotta al nazismo, la popolazione d’Abruzzo fu
particolarmente esemplare. Pagando un tributo alto di sangue che va
adeguatamente ricordato, con riconoscenza e con ammirazione.
La rivolta cominciò, subito dopo l’8 settembre, con episodi
spontanei ma diffusi.
All’Aquila nove ragazzi sorpresi con le armi in pugno furono
fucilati sul posto dai soldati tedeschi. Nessuno di loro superava i venti anni.
A Bosco Martese, sulle montagne teramane, si radunarono 1600
uomini in armi. C’erano trecento sbandati, un centinaio di prigionieri di
guerra, inglesi e slavi, evasi dal campo di concentramento. Ma la maggior parte
erano giovani provenienti da Teramo, decisi a combattere.
Per più di ventiquattro ore riuscirono a tenere testa
all’esercito tedesco, poi – di fronte a un nuovo attacco con armi pesanti e
rinforzi – si dispersero tra i boschi, per continuare la lotta. Anche qui, un
battesimo del fuoco. Commentò Parri, comandante nazionale dei partigiani:
quella di Bosco Martese «fu la prima battaglia nostra in campo aperto».
Insorse anche la città di Teramo. Pure qui il bilancio fu
tragico: i capi dei rivoltosi, guidati dal medico Mario Capuani, sostenuto dai
carabinieri della locale caserma, furono barbaramente trucidati.
Si ribellò Lanciano. Uno dei protagonisti della rivolta,
Trentino La Barba, fu orrendamente seviziato in pubblico da un soldato nazista,
prima di trafiggerlo mortalmente.
Furono quasi un migliaio le vittime civili di eccidi e
rappresaglie. Pietransieri (125 morti), Sant’Agata di Gessopalena (36),
Capistrello (33 morti). Francavilla, Arielli, Onna, Filetto, Lanciano,
Montenerodomo, Pizzoferrato, Bussi sul Tirino, sono alcuni dei nomi dei paesi
d’Abruzzo che conobbero la ferocia nazista contro la popolazione civile.
Ma il terrore e le fucilazioni non impedivano, anzi, in
qualche modo, aumentavano l’impegno degli abruzzesi a fianco dei liberatori:
anziani, donne, ragazzi, sacerdoti. Chi poteva si impegnava attivamente.
Rischiando di continuo la vita.
Si aprirono così, tra questi monti, i sentieri della
libertà. Pastori, cacciatori, guide locali accompagnavano generosamente soldati
alleati e italiani, ebrei, fuggiaschi e perseguitati al di là della Linea
Gustav, mettendoli in salvo. Tra questi ci fu anche il mio illustre
predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, in fuga con un suo amico ebreo, Beniamino
Sadùn.
La grande scrittrice Alba De Céspedes, intellettuale e
partigiana, ci ha lasciato una bellissima descrizione del popolo abruzzese in
quegli anni, che vorrei leggere perché è forse una delle più belle
testimonianze di ciò che ha fatto la gente d’Abruzzo in quel momento:
«Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è un
oggetto ingombrante, un carico di rischi e di compromissioni. Ma voi neppure accennavate
a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al
fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore,
gettavano un’altra manata di polenta nel paiolo. […] Non c’era bisogno di
passaporto per entrare in casa vostra. C’erano inglesi, romeni, sloveni,
polacchi, voi non intendevate il loro linguaggio ma ciò non era necessario; che
avessero bisogno di aiuto lo capivate lo stesso. Che cosa non vi dobbiamo, cara
gente d’Abruzzo? Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non
avevamo denaro». Queste parole sono splendide.
Vennero poi le gesta della Brigata Maiella che ci conducono
qui oggi a ricordare per tutta Italia la liberazione del 25 aprile.
Partita dall’Abruzzo e finita nel lontano Veneto. Ce le
hanno narrate, con efficacia e partecipazione lo storico Marco Patricelli e con
la sua testimonianza scritta Antonio Rullo, che combatté con questa leggendaria
Brigata, accanto a Ettore e Domenico Troilo, straordinarie figure da ricordare sempre.
Desidero ancora ringraziarlo per il suo messaggio, che ha aggiunto calore e
commozione al nostro ricordo. Saluto anche i figli presenti di Ettore e
Domenico Troilo e li ringrazio per la loro presenza, così significativa, tra
noi.
La nascita del movimento della Resistenza, che mosse i primi
passi in Abruzzo, segna il vero spartiacque della nostra storia nazionale verso
la libertà. Chiuse la fase della dittatura e portò l’Italia all’approdo della
libertà, della democrazia e della Costituzione.
La vita democratica, dopo il cupo ventennio fascista, ha le
sue radici nella lotta di liberazione. E la nostra Costituzione, sigillo di
libertà e democrazia, come scrisse Costantino Mortati nel 1955, nel decennale
della Liberazione, «si collega al grande moto di rinnovamento espresso dalla
Resistenza».
Vorrei concludere rivolgendo un commosso pensiero anche a
tutti quei giovani soldati, provenienti da tante parti del mondo, che sono
caduti sul suolo italiano per liberarci dal giogo nazifascista e che riposano
nei cimiteri di guerra: non sono stranieri, ma sono nostri fratelli.
Il ricordo della Repubblica li abbraccia insieme ai nostri
caduti della Resistenza, cui è sempre rivolto il nostro pensiero riconoscente e
ammirato.
Viva la Resistenza, viva l’Italia libera e democratica!
(Fonte: Quirinale)
Fonte dati: https://letteratitudinenews.wordpress.com
Grazie Presidente, per aver ricordato i soldati Italiani dei
Gruppi di Combattimento.
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