Qualche tempo fa avevamo iniziato, su questo blog, due percorsi di lettura, nel tempo li abbiamo persi, altre situazioni ed altre notizie hanno avuto priorità rispetto a quanto ci eravamo prefissati di fare.
Chiediamo venia e ripariamo subito riprendendo nelle prossime settimane quei due percorsi.
Il primo percorso riguardava la guerra di Russia, combattuta dagli Italiani nella Seconda Guerra Mondiale, il secondo riguardava la Prima Guerra Mondiale, con le frasi di coloro che l'hanno combattuta e sono tornati.
Per il primo percorso iniziamo oggi suggerendo la lettura o la rilettura di un libro edito nel 2003 e ristampato le scorse settimane dal Giornale, nella sua collana "Storie di Guerra".
E' un libro che tutti dovrebbero leggere, lo dovrebbero leggere nelle scuole, lo dovrebbero leggere i genitori e poi rileggerlo ai figli; per far capire tante cose e farli riflettere sulla miseria umana che inevitabilmente le dittature portano con se, qualsiasi sia il colore.
Vi riportiamo l'articolo edito da "Il Giornale.it" e di seguito quello pubblicato sul sito dell'UNIRR.it Unione Nazionale Italiana Reduci Russia.
"Ci sono sessantamila fantasmi nella recente
storia d'Italia. Sessantamila morti chiusi in un archivio le cui chiavi
sono in mano alla cattiva coscienza del nostro Paese. A Giulio Bedeschi
occorsero diciotto anni per riuscire a pubblicare Centomila gavette di
ghiaccio, accettato da Ugo Mursia dopo il rifiuto di tutti gli altri
grandi della patria editoria. A Luigi Venturini, friulano, ex
sottufficiale della Divisione Julia, ne sono occorsi cinquantasei per
dare alle stampe nel 2002 la storia dei soldati e ufficiali italiani
sterminati nei campi di prigionia sovietici dal 1943 al 1945. Sono quei
sessantamila fantasmi. «Fummo fatti prigionieri in settantamila - dice
oggi Venturini - e ritornammo in diecimila. Per anni si accettò la
favola che quei sessantamila erano morti durante la ritirata». Perché
fino ad un certo periodo era inopportuno rendere noto che nel paradiso
socialista si facevano morire i prigionieri di guerra.
Solo dopo la caduta del regime comunista, quando si aprirono gli archivi del Kgb, il settore Onorcaduti del nostro ministero della Difesa riuscì a visionare decine di migliaia di cartelle dei prigionieri italiani e a rintracciare i nomi di quarantamila soldati morti in prigionia e sepolti in fosse comuni. «Sugli altri ventimila ignoti che mancano all'appello - dice ancora Venturini - solo noi sopravvissuti conosciamo la verità». Una verità che Luigi Venturini, classe 1922, non ha mai avuto il coraggio di rivelare a voce alle madri dei suoi commilitoni che gli chiedevano notizie dei figli, in quel dicembre del 45, quando scese, scheletrico e coperto di piaghe, da una tradotta alla stazione di Mestre. Non aveva il coraggio di parlare ma non voleva dimenticare. «E così - racconta - dopo aver trascorso tutto il 1946 tra lunghe cure mediche, mi proposi di scrivere le memorie di quel triennio tremendo. Era il mio estremo omaggio agli amici morti. Eravamo partiti in nove da via del Bon a Udine, sono tornato solo io. Mi ero presentato al distretto di leva, il 15 gennaio 1941, avevo appena compiuto diciannove anni».
Come per Bedeschi, le memorie di Venturini rimasero a lungo nel cassetto. Che aria tirava, il reduce dai lager russi non ci mise molto a capirlo. «Quindici giorni dopo il mio ritorno a casa, si presentarono due partigiani, due ragazzotti col fazzoletto rosso e il mitra a tracolla. Vedi di non inventarti storie - mi intimarono - sennò, se non ti hanno fatto fuori i russi, provvediamo noi. Mia madre, poveretta, era terrorizzata». Poi gli anni trascorsero. «Quando la sera del 27 novembre 2000 vidi in televisione il presidente Ciampi in visita alle fosse comuni di Tambov, dove sono sepolti migliaia di prigionieri di guerra italiani, mi sono commosso fino alle lacrime. Finalmente. E pensare che i tedeschi fin dall'83 avevano sistemato e onorato i loro cimiteri di guerra in Russia. Da noi dei campi di prigionia sovietica non si è quasi parlato». Nel 2002 è uscito il libro di memorie di Venturini, La fame dei vinti. Diario di prigionia in Russia di un sergente della Julia (editore Gaspari, pag. 171). Titolo ispirato a Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa? «Niente affatto - risponde lui - il mio libro è uscito un anno prima». Non è un libro facile da leggere e Venturini lo sa. Contiene ciò che non ebbe il coraggio di raccontare alle madri degli amici morti «quando quasi mi vergognavo di essere sopravvissuto».
Luigi Venturini, radiotecnico responsabile dell'unica stazione radio del comando divisione, fu fatto prigioniero alla fine di gennaio 1943 a Valujki dove, dopo lo sfondamento del fronte sul Don, erano ripiegati i resti della divisione Cuneense e gli ultimi uomini della Julia, ignorando che la cittadina era già in mano russa. Il calvario dei prigionieri inizia da lì, nella gelida sera del 27 gennaio 1943, con 40 gradi sotto zero. Valujki, ma anche Podgornoje, Tambov, Rossosch, Buturlinowka, Arsh, Krinovaja, Elabuga: sono le tappe di massacranti trasferimenti, marce di centinaia di chilometri nella neve, compiute da uomini stremati, feriti, febbricitanti. «Davai, davai. Avanti, avanti, ci gridavano le guardie russe. Chi cadeva a terra veniva ucciso. Non c'erano camion per caricare feriti e congelati. Il 70 per cento dei soldati fatti prigionieri con me sono morti nei primi mesi del 43». Per gli altri si apriva un inferno fatto di lager dove venivano uccisi dalla denutrizione, dalle malattie polmonari, dal tifo, dalla dissenteria. Un inferno di vagoni piombati dove giacevano ammucchiati uno sull'altro nel proprio sterco, accanto ai cadaveri di quelli che non ce l'avevano fatta, tormentati dalla fame, dalla sete, dai parassiti.
Il fondo dell'inferno fu Krinovaja dove, nel delirio della fame, tra i prigionieri cominciò a dilagare il cannibalismo. Ma episodi simili si verificarono anche a Podgornoje dove si trovava Venturini: «Mi ero accorto di un fumo acre, come di carne bruciata che usciva da una stufa - ricorda - e mi chiedevo che cosa potesse essere, dal momento che il pochissimo cibo che ricevevamo era soltanto pane nero e una specie di zuppa. Me lo dissero i compagni che si dedicavano alla sepoltura dei morti: a molti cadaveri mancava il cuore o il fegato. Il taglio era netto e non si poteva scambiare per una ferita».
Si può sopravvivere a tutto questo? «La prigionia - risponde Venturini - mi ha mostrato l'orrore della vita e il suo contrario. Io sono vivo grazie a una donna russa che mi raccolse con la febbre altissima perché avevo una polmonite doppia, mi caricò su una slitta e mi portò fino a Podgornoje dove fui ricoverato in quello che era stato un ospedale di retrovia della divisione Tridentina. Dopo la guerra, sono ritornato nei luoghi che ho attraversato da prigioniero, e l'ho cercata. Era morta ma ho saputo il suo nome. A lei ho dedicato il mio libro. A mamma Fëkla Juchnevic e a tutte le madri russe a cui debbo la vita. Queste donne furono meravigliose, divisero con noi - i loro nemici - il poco che avevano, quando fuggivamo dai campi in cerca di cibo. Una carità evangelica».
Un contrasto singolare, quello fra la durezza del trattamento che i sovietici riservavano ai prigionieri e la generosità dei civili. «Me ne sono chiesto anch'io la ragione - dice Venturini -. Ho spesso pensato che i nostri carcerieri ci volessero eliminare tutti. Credo ora che la nostra tragedia abbia avuto cause molteplici: la durezza obiettiva della situazione (gli inverni erano tremendi) e la durezza del carattere russo. Poi c'era l'odio ideologico verso i fascisti, la loro disorganizzazione dovuta sia alla guerra sia al regime, la mancanza di viveri, di mezzi di trasporto, di carburante...».
Venturini sopravvisse alla polmonite, al tifo, all'enterocolite, alla malaria, alle piaghe provocate dalla massiccia infestazione di pidocchi, all'anemia provocata dalla denutrizione. Sopravvisse alle urla dei morenti di cancrena, alle cataste su cui era costretto a buttare i poveri corpi disarticolati dei compagni morti. Sopravvisse anche alla tentazione di accettare la proposta di tornare in patria per un'azione di spionaggio contro il suo Paese. «I russi mi sottrassero tutto: abiti, oggetti personali, la foto dei miei genitori. Riuscii a salvare l'immaginetta della Madonna di Castelmonte che mia madre, sua devota, mi aveva dato al momento della partenza».
Il 4 dicembre 45, cinquantatré giorni dopo la partenza dal campo di Elabuga, il sergente Venturini - 46 chili e le gambe gonfie per la distrofia provocata dalla denutrizione - attraversava il Brennero. I treni dei reduci erano accolti da una folla di padri e madri con fotografie in mano: scrutavano ansiosi le larve che scendevano dai vagoni. Da 35 mesi non sapevano nulla dei figli.
Non fu un ritorno facile per il sottufficiale della Julia. «La mia casa era diroccata per i bombardamenti, mio padre, brigadiere dei vigili urbani, era stato denunciato da un collega per collaborazionismo (parlava un pò di tedesco) ed era stato prima incarcerato e poi epurato, non avevamo una lira. Ma io ero tornato. E quando, dopo le tradotte del gennaio 1946, fu chiaro che dalla Russia non sarebbe tornato più nessuno, decisi di mettere sulla carta la nostra storia, per ricordare almeno i miei otto amici partiti con me che erano rimasti là». L'atteggiamento del Paese ufficiale nei confronti dei reduci fu un misto di incredulità e di fastidio. «Nella primavera del 1946 l'atmosfera politica sconsigliava la pubblicazione di storie che potessero accusare l'Unione Sovietica. I miei appunti rimasero nel cassetto».
Per i tre anni di prigionia, al reduce furono assegnati tre anni di paga da sottufficiale. «Ma nell'estate del 1947 vennero i carabinieri con un documento che mi imponeva di restituire tutto al distretto militare di Udine. Andai a protestare. Mancano i fondi, mi risposero. Avevo appena ricominciato a lavorare, restituii tutto a rate di mille lire al mese»".
Solo dopo la caduta del regime comunista, quando si aprirono gli archivi del Kgb, il settore Onorcaduti del nostro ministero della Difesa riuscì a visionare decine di migliaia di cartelle dei prigionieri italiani e a rintracciare i nomi di quarantamila soldati morti in prigionia e sepolti in fosse comuni. «Sugli altri ventimila ignoti che mancano all'appello - dice ancora Venturini - solo noi sopravvissuti conosciamo la verità». Una verità che Luigi Venturini, classe 1922, non ha mai avuto il coraggio di rivelare a voce alle madri dei suoi commilitoni che gli chiedevano notizie dei figli, in quel dicembre del 45, quando scese, scheletrico e coperto di piaghe, da una tradotta alla stazione di Mestre. Non aveva il coraggio di parlare ma non voleva dimenticare. «E così - racconta - dopo aver trascorso tutto il 1946 tra lunghe cure mediche, mi proposi di scrivere le memorie di quel triennio tremendo. Era il mio estremo omaggio agli amici morti. Eravamo partiti in nove da via del Bon a Udine, sono tornato solo io. Mi ero presentato al distretto di leva, il 15 gennaio 1941, avevo appena compiuto diciannove anni».
Come per Bedeschi, le memorie di Venturini rimasero a lungo nel cassetto. Che aria tirava, il reduce dai lager russi non ci mise molto a capirlo. «Quindici giorni dopo il mio ritorno a casa, si presentarono due partigiani, due ragazzotti col fazzoletto rosso e il mitra a tracolla. Vedi di non inventarti storie - mi intimarono - sennò, se non ti hanno fatto fuori i russi, provvediamo noi. Mia madre, poveretta, era terrorizzata». Poi gli anni trascorsero. «Quando la sera del 27 novembre 2000 vidi in televisione il presidente Ciampi in visita alle fosse comuni di Tambov, dove sono sepolti migliaia di prigionieri di guerra italiani, mi sono commosso fino alle lacrime. Finalmente. E pensare che i tedeschi fin dall'83 avevano sistemato e onorato i loro cimiteri di guerra in Russia. Da noi dei campi di prigionia sovietica non si è quasi parlato». Nel 2002 è uscito il libro di memorie di Venturini, La fame dei vinti. Diario di prigionia in Russia di un sergente della Julia (editore Gaspari, pag. 171). Titolo ispirato a Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa? «Niente affatto - risponde lui - il mio libro è uscito un anno prima». Non è un libro facile da leggere e Venturini lo sa. Contiene ciò che non ebbe il coraggio di raccontare alle madri degli amici morti «quando quasi mi vergognavo di essere sopravvissuto».
Luigi Venturini, radiotecnico responsabile dell'unica stazione radio del comando divisione, fu fatto prigioniero alla fine di gennaio 1943 a Valujki dove, dopo lo sfondamento del fronte sul Don, erano ripiegati i resti della divisione Cuneense e gli ultimi uomini della Julia, ignorando che la cittadina era già in mano russa. Il calvario dei prigionieri inizia da lì, nella gelida sera del 27 gennaio 1943, con 40 gradi sotto zero. Valujki, ma anche Podgornoje, Tambov, Rossosch, Buturlinowka, Arsh, Krinovaja, Elabuga: sono le tappe di massacranti trasferimenti, marce di centinaia di chilometri nella neve, compiute da uomini stremati, feriti, febbricitanti. «Davai, davai. Avanti, avanti, ci gridavano le guardie russe. Chi cadeva a terra veniva ucciso. Non c'erano camion per caricare feriti e congelati. Il 70 per cento dei soldati fatti prigionieri con me sono morti nei primi mesi del 43». Per gli altri si apriva un inferno fatto di lager dove venivano uccisi dalla denutrizione, dalle malattie polmonari, dal tifo, dalla dissenteria. Un inferno di vagoni piombati dove giacevano ammucchiati uno sull'altro nel proprio sterco, accanto ai cadaveri di quelli che non ce l'avevano fatta, tormentati dalla fame, dalla sete, dai parassiti.
Il fondo dell'inferno fu Krinovaja dove, nel delirio della fame, tra i prigionieri cominciò a dilagare il cannibalismo. Ma episodi simili si verificarono anche a Podgornoje dove si trovava Venturini: «Mi ero accorto di un fumo acre, come di carne bruciata che usciva da una stufa - ricorda - e mi chiedevo che cosa potesse essere, dal momento che il pochissimo cibo che ricevevamo era soltanto pane nero e una specie di zuppa. Me lo dissero i compagni che si dedicavano alla sepoltura dei morti: a molti cadaveri mancava il cuore o il fegato. Il taglio era netto e non si poteva scambiare per una ferita».
Si può sopravvivere a tutto questo? «La prigionia - risponde Venturini - mi ha mostrato l'orrore della vita e il suo contrario. Io sono vivo grazie a una donna russa che mi raccolse con la febbre altissima perché avevo una polmonite doppia, mi caricò su una slitta e mi portò fino a Podgornoje dove fui ricoverato in quello che era stato un ospedale di retrovia della divisione Tridentina. Dopo la guerra, sono ritornato nei luoghi che ho attraversato da prigioniero, e l'ho cercata. Era morta ma ho saputo il suo nome. A lei ho dedicato il mio libro. A mamma Fëkla Juchnevic e a tutte le madri russe a cui debbo la vita. Queste donne furono meravigliose, divisero con noi - i loro nemici - il poco che avevano, quando fuggivamo dai campi in cerca di cibo. Una carità evangelica».
Un contrasto singolare, quello fra la durezza del trattamento che i sovietici riservavano ai prigionieri e la generosità dei civili. «Me ne sono chiesto anch'io la ragione - dice Venturini -. Ho spesso pensato che i nostri carcerieri ci volessero eliminare tutti. Credo ora che la nostra tragedia abbia avuto cause molteplici: la durezza obiettiva della situazione (gli inverni erano tremendi) e la durezza del carattere russo. Poi c'era l'odio ideologico verso i fascisti, la loro disorganizzazione dovuta sia alla guerra sia al regime, la mancanza di viveri, di mezzi di trasporto, di carburante...».
Venturini sopravvisse alla polmonite, al tifo, all'enterocolite, alla malaria, alle piaghe provocate dalla massiccia infestazione di pidocchi, all'anemia provocata dalla denutrizione. Sopravvisse alle urla dei morenti di cancrena, alle cataste su cui era costretto a buttare i poveri corpi disarticolati dei compagni morti. Sopravvisse anche alla tentazione di accettare la proposta di tornare in patria per un'azione di spionaggio contro il suo Paese. «I russi mi sottrassero tutto: abiti, oggetti personali, la foto dei miei genitori. Riuscii a salvare l'immaginetta della Madonna di Castelmonte che mia madre, sua devota, mi aveva dato al momento della partenza».
Il 4 dicembre 45, cinquantatré giorni dopo la partenza dal campo di Elabuga, il sergente Venturini - 46 chili e le gambe gonfie per la distrofia provocata dalla denutrizione - attraversava il Brennero. I treni dei reduci erano accolti da una folla di padri e madri con fotografie in mano: scrutavano ansiosi le larve che scendevano dai vagoni. Da 35 mesi non sapevano nulla dei figli.
Non fu un ritorno facile per il sottufficiale della Julia. «La mia casa era diroccata per i bombardamenti, mio padre, brigadiere dei vigili urbani, era stato denunciato da un collega per collaborazionismo (parlava un pò di tedesco) ed era stato prima incarcerato e poi epurato, non avevamo una lira. Ma io ero tornato. E quando, dopo le tradotte del gennaio 1946, fu chiaro che dalla Russia non sarebbe tornato più nessuno, decisi di mettere sulla carta la nostra storia, per ricordare almeno i miei otto amici partiti con me che erano rimasti là». L'atteggiamento del Paese ufficiale nei confronti dei reduci fu un misto di incredulità e di fastidio. «Nella primavera del 1946 l'atmosfera politica sconsigliava la pubblicazione di storie che potessero accusare l'Unione Sovietica. I miei appunti rimasero nel cassetto».
Per i tre anni di prigionia, al reduce furono assegnati tre anni di paga da sottufficiale. «Ma nell'estate del 1947 vennero i carabinieri con un documento che mi imponeva di restituire tutto al distretto militare di Udine. Andai a protestare. Mancano i fondi, mi risposero. Avevo appena ricominciato a lavorare, restituii tutto a rate di mille lire al mese»".
Venturini, classe 1921, in passato ha ricoperto la carica di
Presidente della sezione U.N.I.R.R. Friulana; partecipò alla Campagna di Russia
con il III Battaglione Misto-Genio della Divisione Julia ed era incaricato
della manutenzione degli apparecchi rice-trasmittenti della Divisione.
Guido Vettorazzo, reduce del Battaglione Tolmezzo, ha
raccontato che Luigi Venturini – durante il ripiegamento – tentò di mettersi in
contatto radio con il Comando di Corpo d'Armata alpino... o con qualsiasi
nostro Comando potesse essere in ascolto. Parlava in dialetto friulano, per non
farsi capire in caso di intercettazione. Dall'altra parte, il silenzio.
In mancanza di collegamenti-radio Cuneense, Julia e Vicenza
si diressero a Valuiki, come da ordini ricevuti in precedenza. E fu proprio a
Valuiki, il 27 gennaio 1943, che Venturini fu catturato dai Sovietici.
Rientrò in Italia nel dicembre 1945, con il fisico
fortemente debilitato dagli anni in prigionia.
Convinto che Qualcuno avesse provveduto a salvarlo
dall'inferno dei lager, nel 1946 iniziò a scrivere un diario in cui raccontava
la sua esperienza. Il diario, poi rivisto in anni recenti, fu pubblicato nel
2003 con il titolo La fame dei vinti, edito da Paolo Gaspari Editore.
Nel brano che segue Luigi Venturini descrive la
perquisizione dopo la cattura e i sentimenti di angoscia che lo pervadono in
quei primi momenti...
È la prima volta che vedo a così breve distanza i soldati
russi. Questi sono tutti d'origine mongola e la maggior parte ha il viso che
porta i segni lasciati dal vaiolo.
Quasi tutti ubriachi di vodka, ci fanno serrare con violenti
spintoni urlando parole incomprensibili. Ora siamo fermi in colonna per due.
Dietro a noi stanno ancora arrivando prigionieri. La fila si allunga sempre più
fino a perdersi in lontananza. Ormai saremo più di un migliaio.
Alcune centinaia di metri davanti a noi, ove c'è un folto gruppo
di soldati russi, c'è molta animazione. Ci sono molti morti sulla neve e ogni
tanto si sente uno sparo accompagnato da urla e risate.
La fila di prigionieri avanza lentamente. Giovanni [Dal
Molin] mi è vicino. Stiamo tutti guardando attentamente per capire che cosa
succede in quel luogo. Alcuni compagni italiani che si trovano più avanti
passano parola, informandoci che in quel posto si sta effettuando la
perquisizione dei prigionieri.
Il sole ormai è quasi calato. Avanziamo ancora verso il
punto di perquisizione e da qui ora riusciamo a vedere meglio cosa succede e a
capire il motivo degli spari.
I prigionieri sono perquisiti due alla volta da soldati
mongoli: tasche, zaini, gavette e sacchetti vari vengono vuotati sulla neve. I
perquisitori intascano le cose interessanti e, mentre alcuni prigionieri
vengono fatti passare alla svelta, contro altri si alzano delle grida che ci
concludono con un colpo di pistola.
Quando un malcapitato cade, i due retrostanti sono costretti
a raccoglierne il corpo, per poi depositarlo sul mucchio che sia sta
incrementando vicino al posto di perquisizione.
Sono annichilito dal terrore; chissà perché l'hanno ucciso.
Si sente ancora uno sparo, un altro prigioniero cade.
"Giovanni, perché uccidono?"
"Non lo so, può darsi che ce l'abbiano con determinati
prigionieri, perché sono molti coloro che passano."
Siamo incolonnati da due ore e ormai siamo vicini. Ora si
vede bene cosa succede e la paura mi sta bloccando le mascelle.
Siamo frammisti a soldati di varie nazionalità. I perquisitori
sbottonano con violenza i cappotti e le giacche frugando dappertutto.
Sequestrano sistematicamente orologi, oggetti d'oro, oggetti personali,
guardando documenti, mostrine e gradi sulla divisa: se è Italiano o Ungherese,
ha salva la vita, se è graduato o ufficiale tedesco, viene infilzato con la
lunga baionetta triangolare o finito con un colpo di pistola!
Giovanni e io siamo sottufficiali. Il terrore aumenta
talmente in me che mi ritrovo a pensare ai miei genitori lontani.
Siamo alla mercé dei vincitori: recito una preghiera per la
vita che forse sto per perdere. Ancora quattro prigionieri e poi tocca a noi
due. Ora vedo che la maggioranza dei morti è di nazionalità tedesca, mentre gli
Italiani sembra li lascino passare: basta consegnare velocemente gli orologi e
gli oggetti di valore.
Ci siamo, il mio perquisitore esclama: "Italiano?"
"Sì..."
"Vediamo.", ribatte aprendomi brutalmente il
cappotto per controllare le mostrine della giacca. "Karasciò (va bene).
Vediamo lo zainetto? Karasciò."
Mi strappa allora l'orologio da polso e, dopo avermi
sottratto il taccuino di pelle, mi affibbia un violento spintone, dicendomi:
"Vai laggiù."
Giovanni è pure passato. Io ho salvato l'orologio da quadro
che avevo nel taschino, il grasso anticongelante, mezza tasca di tabacco, gli
scarponi nello zainetto e alcune fotografie ricordo.
È passata! Ora i nervi si allentano. C'incamminiamo verso il
folto ammassamento che si sta formando lungo un reticolato, che sembra
recingere una vasta area con molte baracche di legno mezzo sfondate.
Siamo certamente più di un migliaio. Un nugolo di soldati
russi armati di mitra ci ordina di disporci in fila per quattro, formando una
lunga colonna vicino al reticolato. Con il calare della notte il freddo si fa
più intenso. Sono molte ore che siamo sulla neve e i nostri piedi non si
sentono più.
A un tratto arrivano di corsa delle guardie che ordinano
alla colonna di muoversi. Non facciamo che un centinaio di metri, quando di
nuovo siamo fermi. Un ufficiale russo, attorniato da alcuni prigionieri
interpreti, richiama la nostra attenzione invitandoci a guardare sulla neve
vicino al reticolato.
Lo spettacolo che si presenta è orribile: sulla neve si
allunga una fila di corpi nudi, ingialliti dal congelamento, legati a dei
paletti che li crocifiggono con le braccia e le gambe allargate.
"Questi" grida l'ufficiale "sono nazisti che
hanno osato fuggire da questo campo (indicando la zona recintata). Chi di voi
tenterà di fuggire, farà la stessa fine!"
Rimaniamo ammutoliti di fronte a questo spettacolo. Ora più
che mai ci sentiamo vinti. Uno strano malessere mi pervade: le emozioni, la
stanchezza, la fame e il freddo scavano il fisico e lo spirito.
La fame dei vinti -
pagine 23, 24 e 25
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