martedì 4 febbraio 2014

Memorie di un celoviek Bersagliere: Capitolo 3




17 dicembre: i russi all’attacco delle nostre retrovie

Spunta tra l’incerto chiarore il giorno 17 dicembre 1942. Sono le otto del mattino e l’alba comincia appena a distendere sul paesaggio, sugli uomini, su tutto le prime, incerte e timorose luci. È un’alba grigia come gli eventi che gravano su di noi e stanno scivolando verso un tragico epilogo. Essa stessa, l’alba, pare sorpresa di vederci ancora attestati sulle trincee di Migulinskaja, per questo stenta a spuntare. Il freddo è intenso e il termometro segna trenta gradi sotto lo zero. Ogni tanto una sferzata di gelido vento schiaffeggia il viso; alcuni cristalli di neve ghiacciata dondolano per l’aria, scendono, risalgono, volteggiano un poco e poi cadono a terra per rialzarsi in un turbinio vorticoso assieme a tanti altri. Ovunque, su tutta la linea, silenzio profondo e una calma irreale turbata solo da un lungo brontolio non troppo distante. Quanto pagheremmo per un’ora di riposo, e in un dolce tepore!

   Dal Comando di reggimento giungono brutte notizie, sempre più brutte. I russi attaccano le nostre retrovie. Gli uomini validi, scritturali, furieri, medici, infermieri, gli addetti alle salmerie, tutti insomma sono sulla linea di difesa a contrastare le forze nemiche che tentano di accerchiarci. Gli attacchi sempre più veementi; la resistenza dei nostri accanita. Il colonnello, e giustamente, vuole difendere Miklin a tutti i costi. Una compagnia del nostro battaglione corre in aiuto ai difensori. La base del 3° Reggimento è stata occupata; i rifornimenti interrotti e distrutti, i nostri bagagli perduti.

   Chissà che fine avrà fatto la mia cassetta d’ordinanza, chiusa con un grosso lucchetto, che custodiva la nuova divisa da ufficiale per il tempo di pace o le cerimonie, l’altezzoso cappello con le lunghe penne nere e lucenti, la superba mantella con le mostrine cremisi, la sciabola ricurva, i rigidi stivali e la sahariana impermeabile donatami dai miei genitori il giorno in cui tornai a casa da Besozzo per salutarli e poi subito partire per la sconosciuta Russia. Cara, amata cassetta con dentro i miei piccoli, grandi tesori e che per tutto il lungo peregrinare, da Milano al Don, mi aveva seguito come una fedele compagna di vita. Chissà dove sarà finita e chi mai lo saprà!

   Per ben due volte i bersaglieri delle retrovie e del Comando respingono con le baionette i russi che avanzano. Un portaordini, giunto da Miklin, ha visto il colonnello ritto sulla linea del fuoco, appoggiato al bastone, incitare i suoi fanti piumati al contrattacco e guardare in faccia il nemico. Non si è riparato un istante ed è rimasto in quella posizione finché i russi non sono indietreggiati. Certamente Iddio lo protegge perché non è stato ancora colpito. Forse il mitico e leggendario colonnello Caretto24, medaglia d’oro caduto sul campo alla testa del 3° Bersaglieri all’attacco veglia, dall’alto dei cieli dove si trova il paradiso santo degli eroi, sul suo reggimento e sul suo successore, il colonnello Luigi Longo.

   “Bersaglieri”, urla, mentre guida i soldati all’assalto, “siate pure oggi degni del Terzo”.

   I fanti piumati hanno rimesso sull’elmetto il piumetto tolto per ordine del generale comandante della Divisione Celere quando il reggimento ritornò sulla linea del Don. Molti di noi pensano che si stia per andare ad un ballo di gala e quindi è giusto agghindarci al meglio.

   Improvvisamente sulla destra del nostro schieramento, sul tratto di fronte tenuto dal 6° Reggimento, scoppia l’inferno. Non riusciamo più a vedere nemmeno il suolo che è tutto coperto da una densa e rossastra nube infuocata. Le Katiuscia, anche 40 razzi contemporaneamente, vomitano senza sosta ferro e fuoco; i pezzi d’artiglieria, grossi e piccoli calibri, fanno altrettanto. Rumori tuonanti di scoppi, frastuono assordante di cingoli e di motori completano l’orchestra funebre che suona sul reggimento fratello. Arrivano anche gli aerei e la terra, violentata e percossa da tanto fragore, trema anche sotto i nostri piedi.

   E noi? Perché ci lasciano in pace? Mah! Alle dodici e trenta raggiungo il nostro caposaldo avanzato. Il mio plotone dà il cambio al Primo; per due giorni saremo di stanza su quel piccolo fazzoletto di terra ancor nostro.

   Mi telefona il capitano Checchini che è stato a rapporto dal comandante di reggimento. Pare che la 197a Divisione russa, una divisione addirittura, attacchi il 6° Reggimento a noi vicino. Il XIII Battaglione, dopo un’eroica resistenza, è stato travolto dalle soverchianti forze nemiche; il IX e l’altro stanno arretrando combattendo per sottrarsi all’accerchiamento. La situazione del nostro Terzo diventa di ora in ora sempre più critica; aspettiamo gli eventi da un momento all’altro e siamo certi che non potranno essere che terribili.

   L’attesa più di ogni altra cosa ci snerva e ci opprime. Due bersaglieri, in una postazione della trincea, sono stati colpiti alla testa dai soliti tiratori scelti russi che sparano solo a colpo sicuro; qualcuno di loro è stato ripagato con la stessa moneta. Un colpo d’artiglieria isolato ha distrutto un piccolo tratto di camminamento sul fronte del II Plotone, senza troppi danni; i bersaglieri stanno rinforzando le ridotte e le postazioni dove le fedeli Breda e i mitragliatori fanno buona guardia. Quasi nessuno riesce a terminare la già ridotta razione di cibo; quella maledetta attesa è così irritante da lenire fame, freddo, tutto.

   Sempre più distinto s’ode il brontolio dei mezzi russi che avanzano verso ovest nella breccia apertasi sul tratto di linea tenuto dal Sesto; anche lo sferragliare dei temuti T-34 ogni tanto ci arriva alle orecchie portato da una folata di vento che ci schiaffeggia la faccia. E noi non possiamo far niente; sentire, vedere e, nella spasmodica attesa, soffrire e sperare. Ci chiediamo perché questa volta non chiamano il Terzo a tappare, come tante altre volte accaduto in passato, le falle apertesi in altri settori del fronte o in aiuto del reggimento fratello. Chissà poi perché? Noi dobbiamo star fermi sulle posizioni conquistate e, in caso di attacco nemico, resistere ad ogni costo; questo è l’ordine ricevuto.

   Una sentinella ha dato l’allarme al caposaldo avanzato. Mi precipito all’osservatorio col sergente: una grossa pattuglia russa, in lontananza, compie un giro di perlustrazione seguendo il corso del fiume e si sta avvicinando; è a tiro. Ragazzi, quei tovarisc devono sapere che siamo ancora vivi e che le infiltrazioni sul fronte del Terzo si pagano care; pronti con le mitragliatrici, i chicchirichì25 iniziano a cantare.

   I soldati russi non si vedono più e tornano la calma e il silenzio. Calma insopportabile che diventa di ora in ora sempre più opprimente; maledetto silenzio che incombe su tutto e su tutti e ci rende nervosi. Il freddo è meno intenso di ieri, forse siamo al di sotto dei venti gradi; il cielo è plumbleo e grosse nubi, dense e basse, corrono veloci sopra le nostre teste al pari dei nostri pensieri. Cadono i primi fiocchi di neve che tra poco diverranno furiosa tormenta.

   Ore 17. Ci telefonano che il piccolo cimitero del Terzo, ubicato nei pressi di Miklin, è stato occupato dalle forze russe. Tra l’incerta luce che muore ci sembra di vedere le diafane ombre dei nostri morti vagare minacciose e solenni tra le profanate tombe. Soltanto quei neri fantasmi ora staranno a guardia di quel bianco fazzoletto di terra dove, all’ombra di piccole croci tutte uguali, dormono il sonno eterno i nostri fanti piumati; adesso, solo loro accoglieranno i nuovi morti per accompagnarli su nel paradiso dove riposano i caduti che hanno dato la vita per la cosiddetta Madre Patria.

   Puce e Spada mi spediscono, a mano, degli eccellenti sigari tedeschi; sono profumati, leggeri e non certo come i nostri toscani mozzafiato; mi serviranno egregiamente per ingannare il tempo senza tempo che si trascorre nel caposaldo avanzato. Telefonano dal Comando di compagnia che Puce, con una pattuglia, sta uscendo per perlustrare la terra di nessuno.

   Nell’imminenza dell’attacco il cappellano militare ha ottenuto il permesso di fare visita ai suoi bersaglieri in trincea; fra poco arriverà anche al caposaldo. Gli mando incontro quattro bersaglieri per scortarlo fin qua.

   “Salve cappellano, quanti ne hai assolti oggi? Ti fermi questa notte con noi a non riposare? Spero di sì; la tua presenza sarebbe oltremodo opportuna perché se i russi attaccheranno saremo noi i primi ad aver bisogno di te per l’assoluzione, non ti pare?”

   “Smettetela di scherzare, incoscienti; siamo in un mare di guai e speriamo che Iddio ci protegga, che la Madonna vegli su tutti noi”.

   L’erede del leggendario Don Mazzoni26, il nuovo cappellano da poco arrivato al Terzo, è in gamba anche lui. Si chiama Don Bonadeo, ma noi l’abbiamo battezzato scherzosamente Don Buondio27. I bersaglieri lo rispettano, lo amano, sanno che nei momenti più tristi e difficili, dove cruenta si svolge la lotta, arriverà con il prete una buona parola, un conforto, l’ultimo paterno abbraccio del giovane cappellano bersagliere.

   Il XXV Battaglione del nostro reggimento è nuovamente investito dall’urto di soverchianti forze nemiche. L’11a Compagnia è stata attaccata da un battaglione russo; il rapporto di forze è di tre a uno, ma i nostri ancora resistono. Il nuovo giorno che sta sorgendo si arroventa fin dalle prime ore del mattino.

   Mi telefonano che i bersaglieri del tenente Brandirle, con le piume al vento e le baionette rivolte al nemico, sono scattati per la terza volta al contrattacco. E dopo tanto ferro, dopo molto fuoco e chissà quanto sangue la linea del fronte è ancora nostra. Il colonnello, noi, tutti stentiamo a credere come pochi uomini abbiano potuto arginare quella marea montante e urlante. Estrema, forse ultima e ignorata visione di fulgido eroismo italiano che oggi sa di leggenda e domani si perderà nel freddo ricordo del niente.

   Un giretto attorno al perimetro del caposaldo mi rincuora e serve a scacciare i tristi pensieri che arrovellano il cervello già stanco. Gli uomini sono vigili e calmi, stanchi ma sereni; più che la fatica fisica causata dalla veglia continua e senza riposo, è la snervante attesa di qualcosa che deve avvenire ma che non si sa cosa sia né quando sarà che ci opprime. L’attesa è lo sforzo che a poco a poco mina il fisico, la mente, il cuore e i nervi già a fior di pelle; è lo stress che ci deprime e ci affatica.

   Verso mezzogiorno, tra uno squarcio di nubi dense e nere, fa capolino un tenue, freddo raggio di sole timoroso come una fanciulla innamorata, sempre bello, però. Alla destra del nostro schieramento, sul fronte tenuto dal XXV Battaglione i combattimenti sono ripresi con più violenza che mai; fra poco anche il Diciottesimo e il Ventesimo saranno coinvolti nella grande battaglia finale.

   Eroico reggimento il Terzo, compatta e gagliarda unità di guerra, dura lega di energie, di volontà intrepida e di temeraria arditezza fuse nell’abilità manovriera e in una rigida disciplina, che in dieci mesi di dura campagna militare ha dato lustro alla sua tradizione, al suo ceppo e al suo nome. Chiamato alla battaglia nel cuore della grande Ucraina, dopo centinaia e centinaia di chilometri di marce tremende, imponeva all’avversario la invitta superiorità delle sue baionette e con lena inesausta e travolgenti assalti sgominava ripetutamente grossi nuclei di retroguardie nemiche occupando il bacino carbonifero di Krasny Lutsch e poi marciava vittoriosamente attraverso il bacino minerario del Donez riaffermando, in rischiose e fulminee azioni, l’ammirevole audacia e la forza terribile dei suoi battaglioni. Incaricato della difesa di un delicato settore di fronte; ridotto e decimato dalle perdite subite nei sanguinosi combattimenti; esposto ai rigori di un freddo, terribile inverno, reagiva con fede incrollabile e indomito coraggio, arginando l’urto di forze nemiche dieci volte superiori coi petti e con l’anima dei suoi fanti piumati. Vinta la furia rispettabile dell’avversario, scagliava i suoi piumetti in una scia di sangue oltre le posizioni riconquistate e si attestava infine sul fronte del mitico, placido Don28. Nipro, Stalino, Serafimowic, Jagodny, Gorlowka, Dniepropetroswk, Iwanovka, Stanzia Iassinovataja sono alcune delle stelle vittoriose e lucenti del suo cammino in terra di Russia, cammino di morte e di sangue che costò al reggimento piumato il 90% della sua forza combattente e che destò l’ammirazione di nemici ed amici. Anche i comandi tedeschi, sorpresi, ammirati dal coraggio dei bersaglieri del Terzo resero omaggio e gloria al valore di questa unità combattente. Possa l’Iddio degli eserciti, finché la pace non regni sulla terra, aggiungere a quelle gloriose tappe del suo andare un’altra fulgida vittoria: Meskov, a te e per te Terzo eroico.

   Guerra feroce e maledetta,questa combattuta in terra di Russia, ma pur sempre guerra; non certo amata, tanto meno voluta anche dai fanti del 3° Bersaglieri, ma combattuta dai soldati italiani con l’eroismo e l’abnegazione di sempre e in ogni dove della terra perché così voleva la Patria, l’Italia, oggi come ieri.

   Chi un giorno leggerà queste storielle, certo fuori dal tempo e sbiadite dagli anni, dica pure che gli sembran zirudelle ma non che fanno male, neppur danni. So ben che tali fatti, anzi misfatti, non interessan niente ed a nessuno; che tal pensare e ragionar da matti non può esser compreso da qualcuno. So pure che il linguaggio in uso allora era uno sciocco parlar fine Ottocento, che oggi né babuske, né ardose29 l’userebbero manco per parlar col vento. Ieri però c’eran la Patria, l’onor, anche i fratelli e il valor, il coraggio e il 3° Bersaglieri; forse eran falsi miti, certo, ma sol quelli ci sembravano giusti e veritieri.

   Il tempo si è fatto sereno; un sole freddo ma sempre sole sbircia tra le rade nubi e guarda, più attonito che lucente, ciò che accade in questa desolata landa di steppa ghiacciata. Un aereo tedesco volteggia come un falco su in cielo; due caccia russi gli fanno la ronda, non certo la corte. Secche virate, cabrate veloci, impennate e picchiate folli, scivolate d’ali e poi una lunga, nera nuvola di fumo. È un caccia russo che precipita a terra; l’altro vira e si perde nel lontano orizzonte. L’apparecchio tedesco continua a volare e a guardare; forse è un ricognitore.

   Rientra alla base una nostra pattuglia; i russi si stanno ammassando numerosi di fronte al settore tenuto dal XXV Battaglione ma per ora non si notano truppe corazzate. Meno male. La mattinata è passata senza eccessive novità; ora sono le sedici del pomeriggio e già tutta l’aria imbruna. Tra poco scenderà il buio e coprirà con la sua nera coltre uomini, cose, tutto facendoci sentire in tal modo sempre più soli e più insofferenti di prima.

   “Signor tenente”, urla il fido Aleci, “c’è il comandante di compagnia al telefono, corra che ha fretta”.

   “Pronto, signor capitano, qui è il comando del caposaldo avanzato, sono Cecchini, agli ordini”.

   “Ascolti bene, tenente, ciò che sto per dirle. Il signor colonnello, con poche spiegazioni e meno parole ha trasmesso a tutti i reparti del Terzo quest’ordine che con urgenza dobbiamo eseguire: ‘Fra un’ora esatta il reggimento abbandonerà il fronte e ripiegherà su Meskov. Siamo accerchiati da forze nemiche corazzate e da una divisione della Guardia; la strada per Meskov sembra ancora libera ma la cittadina è già saldamente in mano ai russi. Dovremo attaccare le loro difese e proseguire per attestarci su una nuova linea di difesa a sud-ovest. O passeremo oltre Meskov o sarà la fine per il Terzo; o morti o prigionieri, o uccisi dal nemico o dal freddo. Avverta tutti gli ufficiali e i bersaglieri che il colonnello sarà alla testa dei reparti durante la marcia di ripiegamento e all’assalto della piazzaforte di Meskov dove dovremo per forza arrivare e attaccare. E passeremo o ci fermeremo per sempre. Bersaglieri, siate come per il passato, degni del Terzo. Siamo l’unico reparto dell’Armata, oltre le divisioni alpine, attestato sulle rive del Don, ma ora dobbiamo per forza arretrare’. Non c’è altro tenente; esegua l’ordine e abbandoni subito il caposaldo avanzato dopo aver trasmesso a tutti i soldati le parole del colonnello. Ci ritroveremo fra mezz’ora al Comando della 2a Compagnia”.

   “Signorsì, signor capitano, agli ordini”.

   Il telefono mi cade di mano; lo sguardo è fisso nel buio verso il grande fiume; la mente mi sembra entrata in un alveare impazzito. I bersaglieri vicini mi guardano come se avessero di fronte un essere umano che ha perso il ben dell’intelletto. Aleci mi scuote per un braccio:

   “Signor tenente, che cosa succede? Vi sentite male?”

   Ritirarci? Perché ritirarci da queste trincee che sono ancor nostre? E se dobbiamo morire perché non finire in questo luogo dove ci siamo costruiti la casa? E i nostri feriti? E i morti che riposano nel piccolo cimitero di Miklin?

   “Sergente, passi parola, è un ordine: prendere armi e munizioni, distruggere il superfluo e poi correre subito al Comando di compagnia; 1a Squadra in avanguardia, Seconda al centro, Terza di retroguardia. Ritirarsi, concentrarsi a Migulinskaja, puntare su Meskov e attaccare”.

   Sono le 17,40 del 19 dicembre 1942; il fato inesorabile, il destino immutabile, l’avversa sorte accompagnano gli uomini del Terzo, le cose, tutto verso un immeritato epilogo finale.

   Il ripiegamento ha inizio: apre la marcia il XVIII Battaglione con la 2a Compagnia, poi il Ventesimo e infine il Venticinquesimo, già provato dai recenti combattimenti sopportati. Tutti i bersaglieri sono consapevoli di ciò che li attende; ognuno si rende conto dell’alternativa cui si va incontro. Ci pare di vivere in queste poche ore ancora calme un tempo incalcolabile della Storia.

   Apre la marcia il mio plotone rafforzato da due squadre mitraglieri del caro, fraterno amico Mario Sica, un bersagliere senza macchia e senza paura. Siamo collegati con gli altri reparti del battaglione, i fianchi protetti da pattuglie esploranti, in coda il plotone di Spada poi il grosso del battaglione.

   Alcuni fuochi arretrati sono rimasti nelle trincee per coprire il ripiegamento della truppa. Uno sguardo ogni tanto all’indietro; un saluto muto e triste alla nostra linea difensiva scavata nella terra gialla ora gelata, al lembo di steppa irrorata dal sangue dei fanti piumati d’Italia, al plumbeo e cupo cielo che ha visto per lungo tempo garrire al vento il tricolore nostro; un addio ai cari fratelli che riposano in pace nei nostri piccoli cimiteri di guerra dopo aver dato tutto, vita compresa al Terzo e alla Patria; un pensiero al placido Don che tanti di noi, dormendo, hanno sognato come un mitico fiume ed ora, desti, ci è apparso come un semplice fiume, anche ingrato perché, già gelato, non ci ha più difeso, anzi ha facilitato al nemico il passaggio di uomini e mezzi contro di noi. Addio a tutti e a tutto, e per sempre.

   Il freddo è intenso; tra uno squarcio di sereno si vedono in cielo alcune stelle tremanti; lo scialbo chiarore di un pallido raggio di luna che si affaccia tra una nube e l’altra e il tenue riverbero della bianca distesa ghiacciata ci indicano la strada. La direzione di marcia è verso Kalmikov, la meta Meskov, e avanti, sempre avanti. Sotto i nostri passi il manto nevoso scricchiola come un vetro che si frantuma; l’arrancare è greve, la fatica tanta. Siamo oramai distanti dalla linea del fronte; solo qualche colpo di cannone e brevi raffiche di armi automatiche risuonano, distinte, nel buio della notte e nel silenzio profondo. Ogni tanto una gelida sferzata di vento sembra sussurrarci all’orecchio un triste lamento che arriva e poi svanisce lontano, lontano e ritorna piangendo vicino per poi sparire di nuovo. Forse è il grido accorato dei nostri bersaglieri morti che invano sussurrano e forte a noi ancor vivi:

   “Fratelli, restate, restate con noi; perché abbandonate la terra che noi conquistammo con il sangue e la vita? Perché ve ne andate? Perché ci lasciate? Nessuno, dopo di voi, verrà mai più a trovarci, né ci porterà un saluto, una croce od un fiore; no, no, noi spariremo nel ricordo del niente e allora perché ci lasciate? Restate con noi”.

   Il tormento di quell’angoscioso lamento che ci par di sentire tra le folate del vento ci fa battere il cuore più della fatica della marcia e dell’ansia dell’attesa che sta per finire. È una marcia estenuante, dura, stressante; lo zaino sembra pieno di piombo; le armi enormi cannoni; le munizioni e le bombe a mano grossi macigni, ma si avanza. Ogni mezz’ora viene dato il cambio a coloro che trasportano sulle spalle le armi pesanti: mitragliatrici, mitragliatori, mortai; si alternano anche i plotoni e le squadre delle pattuglie che ci proteggono i fianchi perché il loro avanzare fuori della pista è massacrante. Del 120° Artiglieria del colonnello De Simone non sappiamo più niente.

   Il morale è tutt’ora alto; il fisico, molto provato, regge bene; i nostri pensieri spaziano dalla steppa gelata alla chiesa di Meskov, da questo strano paese ad altri paesi più noti, dalle isbe a case lontane dove le mamme vegliano e pregano, le spose in ansia attendono e i figli sperano, per poi condensarsi in un unico desiderio morboso di farla finalmente finita con tutti e con tutto, in un modo o nell’altro, sempre sperando di rompere il cerchio e passare oltre.


   Attraversata la balka uno spettacolo deprimente ci attanaglia il cuore e si affaccia al nostro sguardo incredulo. Sulla destra e in avanti grossi incendi lambiscono con alte, rossastre lingue di fuoco il cielo nebbioso. Ogni tanto boati tremendi spezzano per un attimo le fiamme, che subito si riaccendono più alte e più rosse dando poi vita ad altri scoppi, a nuove e più ampie vampate. Sono i nostri magazzini e i depositi di munizioni abbandonati e incendiati; raccapricciante, demoralizzante visione di quelle ore già oltremodo tremende. Sul piano stradale e ai margini s’incontrano alla rinfusa oggetti e armi abbandonate; altri, prima di noi e con più fretta, hanno percorso la stessa pista. A sinistra, sul ciglio di un fosso, un nostro autocarro incendiato assiste, muto, alla lenta sfilata dei reparti; a qualche metro di distanza una motocicletta sembra invocare un sorso di benzina per poterci seguire. Che freddo, gente! Il breve spazio del viso, non coperto dal passamontagna, si copre di una leggera, gelida spruzzata di brina; sulla lana, all’altezza della bocca e delle narici si è invece formato uno spesso strato di ghiaccio che non si riesce a staccare dalla stoffa. Alzare o abbassare sul capo l’elmetto è un’impresa faticosa: i guanti sembrano toccare non la superficie d’acciaio ma uno strato di colla a pronta presa. Purtroppo anche le palpebre ci procurano fastidio; infatti cominciano ad indurirsi e ad appiccicarsi tra loro, segno che il termometro sta oltrepassando i trenta gradi sotto lo zero. Pure gli occhi danno noia: un bruciore li fa lacrimare e ogni tanto bisogna stropicciarli per consentire alle palpebre di abbassarsi ed alzarsi con una certa elasticità, dandoci inoltre la sensazione di sentirli gonfiare come gli occhi delle ranocchie. Primi, certi sintomi di una stanchezza che cresce e vince anche la stessa volontà di resistere degli uomini.

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