Proseguiamo nella serie di documenti, scritti, frasi e racconti della Prima Guerra Mondiale, con la storia di una donna, la cui memoria, le gesta e le idee dovrebbero essere patrimonio di una Nazione.
Riportiamo la sua storia dalle informazioni presenti nel portale del Museo Storico in Trento e da un articolo di Walter Micheli.
Ernesta, la sua storia, le sue idee le sue gesta, ci rendono orgogliosi di indossare il Tricolore.
Riportiamo inoltre, ma solo come nota, la presenza di un bellissimo ed emozionante capitolo su Elena, nel libro "La guerra dei Nostri Nonni" di Aldo Cazzullo, che speriamo nel futuro di annoverare tra gli amici del Cinquantunesimo.
Ernesta Bittanti Battisti,
Figlia di Giuditta Rivara,
casalinga, e Luigi, preside e insegnante di matematica. Dopo un'infanzia
trascorsa tra Brescia, Cagliari e Cremona, dove compie gli studi ginnasiali, si
trasferisce a Firenze, nel 1890. Qui si iscrive alla sezione di Filosofia e
Filologia dell'Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento e
nell'agosto del 1896 consegue il diploma di laurea con una tesi in storia della
letteratura. Nel novembre dello stesso anno inizia a insegnare al Liceo Galileo
di Firenze. Nel capoluogo toscano intreccia rapporti significativi con i
fratelli Mondolfo, Ugo Guido e Rodolfo, Alfredo Galletti, Gennaro Mondaini e
Gaetano Salvemini e conosce Cesare Battisti, destinato a diventare il compagno
della sua vita. Nel 1898, a causa della sua attività politica e del suo
dichiarato laicismo positivista, viene destituita dall'insegnamento in tutte le
scuole del regno. L'8 agosto 1899 sposa civilmente a Firenze Cesare Battisti e
si trasferisce a Trento. Qui collabora alla pubblicazione dei periodici diretti
dal marito, «Tridentum» (1898), «Il Popolo» (1900), «Vita trentina» (1903),
sostituendolo nella direzione durante le sue assenze. Tra il 1901 e il 1910 da
alla luce i figli Luigi (Gigino), Livia e Camillo. Allo scoppio della guerra
ripara in Italia, a Treviglio e a Padova, dove insegna per mantenere la famiglia.
Il 12 luglio 1916 segna la data della sua tragica vedovanza: il marito Cesare,
reo di alto tradimento, viene condannato a morte dal tribunale austriaco e
impiccato nella Fossa dei Martiri del Castello del Buonconsiglio a Trento.
Seguono anni di riflessione, impegno politico e lavoro, di dedizione alla
famiglia, ma anche alla memoria del marito, sviluppata attraverso la scrupolosa
raccolta di quella che fu l'eredità politica e umana di Battisti. Tra il 1916 e
il 1957 dissemina la sua testimonianza storica in una copiosa serie di scritti
e pubblicazioni. Nel 1930 si trasferisce a Milano: ha frequenti contatti con
gli amici antifascisti Ugo Guido e Rodolfo Mondolfo, Paolo Maranini, Tommaso
Gallarati Scotti, Bianca Ceva, Ferruccio Parri e Aldo Spallicci. Sono gli anni
della dura presa di posizione contro il regime fascista, espressa talvolta con
gesti simbolici e coraggiosi, come quando, nel 1939, infrange le leggi razziali
pubblicando su «Il Corriere della Sera» il necrologio per la morte dell'ebreo
Salomone Morpurgo. Lascerà Milano nel 1943, costretta a fuggire in Svizzera
dall'incalzare dell'evento bellico. Nel 1946 la sua esistenza è nuovamente
segnata da un lutto familiare: perde l'amatissimo figlio Gigino in un incidente
ferroviario. L'isolamento in cui si ritira nel secondo dopoguerra non le
impedisce di partecipare alle polemiche sorte intorno alla questione dell'Alto
Adige schierandosi a fianco delle popolazioni alloglotte di questa regione,
nell'ambito degli accordi Degasperi-Grüber e delle soluzioni autonomiste e
regionaliste. Si spegne a Trento il 5 ottobre 1957, confortata dall'affetto
della figlia Livia e dell'amica Bice Rizzi.
Tratto da Museo storico in Trento
Onlus
Il fondo Ernesta Bittanti Battisti è
conservato presso il Museo storico in Trento (MST) come parte dell'archivio
della famiglia Battisti (1890-1978) con segnatura ABT; atto di donazione 12
dicembre 1983, curatore prof. Vincenzo Calì.
Ernesta Battisti Bittanti tra i
Giusti d'Israele
di Walter Micheli
Sessant’anni fa, il 5 settembre
1938, con il Regio Decreto n. 1390 “per
la difesa della razza nella scuola fascista” si dava inizio alle leggi razziali
in Italia. Nessuno poteva immaginare che l’epilogo di quella sventurata
politica sarebbero stati i crematori di Auschwitz, ma lascia sgomenti constatare
che quel provvedimento passò senza alcuna percettibile reazione della società italiana. Anzi, soprattutto nel
mondo accademico, il più interessato all’esclusione dalle cattedre
universitarie dei docenti ebrei, si assistette a scene di invereconda cupidigia
per accaparrarsi le sedi che andavano
liberandosi.
Si dovranno attendere gli anni
dell’occupazione nazista, successiva all’8 settembre 1943, per trovare anche in
Italia “i giusti” che salvarono tante
vite di predestinati allo sterminio, a compensare il comportamento di italiani
delatori, carcerieri, strumenti consapevoli della politica dell’occupante
nazista.
Il decreto espulse novantanove cattedratici ebrei dalle
università italiane e un numero mai calcolato di studenti dalle scuole di ogni
ordine e grado. Fu proposto al Gran Consiglio del Fascismo dal gerarca
considerato il “fascista critico”, il protettore delle eresie e del dissenso
dentro il regime: quel Giuseppe Bottai
cui il sindaco di Roma Rutelli un anno fa voleva intitolare una piazza
della capitale.
Pochissimi vollero capire che s'
imboccava una strada senza ritorno.
Difatti, in quella tarda stagione del 1938 si susseguirono altri decreti, circolari,
interpretazioni che in maniera compiuta avrebbero fatto della comunità
ebraica italiana, una comunità votata all’esodo, all’emarginazione, alla lenta
scomparsa. Era la previsione di un giovane antifascista ebreo, Vittorio Foa,
lucidamente espressa dalla galera in cui era rinchiuso ormai
dal 1935. Ai genitori, pochi giorni dopo l’entrata in vigore del
decreto, scriveva: “In questi giorni vado passando in rassegna mentalmente
quali fra i miei conoscenti sono colpiti dai provvedimenti relativi alla
scuola, ma l’esito non è consolante, fra studenti e professori non c’è famiglia
che si salvi. A questo seguiranno certo a non lunga scadenza le libere
professioni, gli impieghi pubblici e poi i privati. Non c’è da spremersi tanto
il cervello, basta ricorrere agli augusti modelli dell’Europa prima della
rivoluzione francese e del liberalismo del XIX secolo”.
Fra i pochi che tentarono di
rompere il muro dell’indifferenza, del
non sentire e vedere ci fu in quei
giorni Ernesta Bittanti Battisti. Ella aveva avuto nella creativa gioventù in Firenze amici
ebrei carissimi come Ugo Guido e Rodolfo Mondolfo; aveva mantenuto rapporti
intensi con la famiglia irredentista di tradizioni mazziniane del triestino
Salomone Morpurgo. A Trento nel primo
decennio del secolo aveva condotto, col vigore che le era proprio, una vivace
campagna per denunciare il falso storico del Beato Simonino che si voleva vittima di un omicidio rituale
degli ebrei che vivevano in città.
Scrisse dunque, intervenne, aiutò. Tentò di organizzare una protesta fra
i professori, ma fu costretta ad ammettere: “Il mio tentativo non ha fatto
alcun passo”. La colpiva la mancata
reazione del popolo per una vergogna
incancellabile della nazione, la consapevolezza delle nefaste conseguenze che
l’antisemitismo aveva sempre provocato alla storia d’Europa. Un diario, tenuto
dall’autunno del 1938 al maggio del 1943 che lei stessa titolò “ISRAEL -
ANTISRAEL”, testimonia le sue iniziative, le sue riflessioni, i suoi sdegni.
La tragedia del razzismo in
Italia era iniziata con i novantanove professori espulsi dall’università
italiana e con le centinaia di ragazzi costretti a lasciare i banchi delle loro
scuole. Gli ebrei italiani censiti nel 1938 erano 47.238. Terminò con 7495 di
loro internati nei Lager di sterminio.
Solo in 610 fecero ritorno. Settantotto
furono gli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine. Oltre duemila ebrei
combatterono nella Resistenza italiana e sette furono le medaglie d’oro alla
memoria.
Il senatore Giulio Andreotti, nei
mesi appena trascorsi, ha cercato di attenuare le responsabilità dei silenzi del mondo cattolico affiancando
ad esse quelle del mondo laico che, pur
nelle maglie strette della dittatura, avrebbe ancora potuto parlare e di
Benedetto Croce in particolare. Ne seguì una disputa aspra, ma complessivamente
deprimente. Troppi assordanti silenzi ci sono stati in ogni parte della cultura
e della società italiana, per aver
titolo di contrapporre i comportamenti degli uni a quelli degli altri.
Nel Trentino dove i segni della convivenza sono stati
anche recentemente lordati non solo in
termini metaforici, ricordare e riflettere aiuta a tener desta la coscienza civile che appare
tante volte assopita.
In Israele accanto al monumento
all’Olocausto c’è il “Bosco dei Giusti” che ricorda, albero dopo albero, gli
Europei che non tacquero,
ribellandosi al silenzio e
all’acquiescenza di fronte al crimine del razzismo.
E' di Giuseppe Tramarollo, allora
presidente dell’Unione Democratica Amici di Israele, l’introduzione al lavoro
del professor Radice sull’opera di Ernesta Bittanti a favore del popolo
perseguitato. Sua la proposta, lì
espressa, che il nome di Ernesta
Bittanti trovi posto in quel luogo di viva memoria.
Potrebbe essere questo un segno
eloquente, promosso dal comune di Trento, per ribadire un impegno e ricordare
chi, non tacendo, ha dato voce alla
tradizione civile della nostra terra.
Nessun commento:
Posta un commento