L'8 settembre, alcuni giorni prima dell'attacco una lettera
autografa del re Vittorio Emanuele II venne consegnata a papa Pio IX dal conte
Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno. Nell'epistola al
"Beatissimo Padre" Vittorio Emanuele, dopo aver paventato le minacce
del «partito della rivoluzione cosmopolita», esplicitava «l'indeclinabile
necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe,
già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni
indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento
dell'ordine».
Il 10 settembre il conte San Martino scrivendo da Roma al
capo del governo, Giovanni Lanza, descrive i suoi incontri con il cardinale
Antonelli del giorno precedente e in particolare l'incontro con il Papa. Scrive
il conte:
« … che sono stato dal Santo Padre, che gli ho consegnato la
lettera di Sua Maestà e la nota rimessami da V. Eccellenza.... Il Papa era
profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti
rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma… Esso [il Papa] non la
riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo
raccapriccio per le carneficine francesi e prussiane, per non darmi a sperare
che non siano i modelli che vuol prendere … fui fermo nel dirgli che l'Italia
trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale… Il Papa mi disse,
leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato di
meglio gli si dicesse a dirittura che il governo era costretto di entrare nel
suo Stato »
(Ponza di San Martino)
La risposta del Papa fu succinta:
« Maestà,
Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera,
che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che
si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non
entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una
prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M.
empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non
posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii
che contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia
causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M.
per liberarla da ogni pericolo, renderla partecipe delle misericordie onde Ella
ha bisogno.
Dal Vaticano, 11 settembre 1870 »
Il conte di San Martino riferì verbalmente la frase
pronunciata da Pio IX: «Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà
vi dico che non entrerete in Roma».
Quello stesso giorno il corpo di spedizione italiano
stanziato in Umbria entrò nello Stato Pontificio marciando verso Roma, si
trattava di circa 50000 uomini, agli ordini del generale Raffaele Cadorna
mentre l'esercito pontificio contava 13000 unità, comandate dal generale
Hermann Kanzler. Al generale Cadorna fu ordinato di portarsi in prossimità
delle mura romane ma evitare momentaneamente qualsiasi scontro con le truppe
pontificie, e attendere la negoziazione della resa. In caso di trattative
infruttuose, avrebbe fatto ricorso alla forza, evitando, tuttavia, di penetrare
nella Città Leonina.
Il maggiore Giacomo Pagliari, comandante del 34º
Bersaglieri, colpito a morte durante la presa di Porta Pia[nell'elenco dei
caduti (sezione sotto) non compare]
Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si
aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre
l'artiglieria dell'esercito italiano, guidata dal generale Cadorna, aprì
una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia,
che consentì di occupare la città a due battaglioni: uno di fanteria
l'altro di bersaglieri, accompagnati da alcuni carabinieri.
Furono le batterie 2° (cap.Buttafuochi) ) e 8°
(cap.Malpassuti) del 7º reggimento di artiglieria di Pisa ad aprire il fuoco
alle 5.10 su Porta Pia. Una descrizione dettagliata (i colpi italiani sparati
furono 888) e corredata da numerosi testi di dispacci sia italiani che pontifici
si trova a pag. 1075 nel libro del Gen.Carlo Montù "Storia
dell'artiglieria Italiana" (Ed.Arti Grafiche Santa Barbara, Roma). Il 7º
Reggimento di Artiglieria del Regno d'Italia (attuale Reggimento NBC Cremona)
era erede della Artiglieria Guardacosta dell'Esercito Granducale di Toscana,
che fu la prima ad aprire il fuoco a Curtatone nella 1ª Guerra d'Indipendenza e
ha avuto la sua sede agli Arsenali di Pisa fino alla fine della 2ª Guerra
Mondiale.
Dopo l'irruzione dentro la cinta muraria delle truppe italiane
vi furono ancora scontri qua è là che si spensero in poche ore con la resa
chiesta dal Gen. Kanzler. La sera del 20 le truppe pontificie si concentrarono
nella Città Leonina che lasciarono poi l'indomani mattina per andare a
consegnarsi ai vincitori dai quali ricevettero l'onore delle armi. Una
curiosità è che tra i partecipanti all'evento vi fu anche lo scrittore e
giornalista Edmondo De Amicis, all'epoca ufficiale dell'esercito italiano che
ha lasciato una particolareggiata descrizione dell'evento nel libro Le tre
capitali:
« [...] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine
della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a
sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra;
di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la
breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. [...] »
Sullo scontro, invece, ci offre alcune informazioni Attilio
Vigevano che riferisce che mentre gli Zuavi pontifici combattevano, prima della
resa, molti di essi intonarono il loro canto preferito quello dei Crociati di
Cathelineau:
« Intonato dal sergente Hue, e cantato da trecento e più
uomini, l'inno echeggiò distinto per alcuni minuti; il capitano Berger ne cantò
una strofa ritto sulle rovine della breccia colla spada tenuta per la lame e
l'impugnatura rivolta al cielo quasi a significare che ne faceva omaggio a Dio;
presto però illanguidì e si spense nel ricominciato stridore della fucilata,
nel raddoppiato urlio, nel tumulto delle invettive »
(Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio,
Albertelli, p. 571.)
Secondo la descrizione di Antonio Maria Bonetti (1849-1896),
caporale dei Cacciatori Pontifici:
« Stavamo sulle righe, quando alcune voci sulla Piazza di
San Pietro gridarono: "Il Papa, il Papa!". In un momento, cavalieri e
pedoni, ufficiali e soldati, rompono le righe e corrono verso l'obelisco,
prorompendo nel grido turbinoso e immenso di: "Viva Pio IX, viva il Papa
Re!", misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato
Pontefice, alzate le mani al cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo come
un gesto di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in
lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non poter sostenere la nostra
vista, allora sì veruno più poté far altro che ferire le stelle con urla, con
fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di tanto cordoglio
all'anima di un sì buon Padre e Sovrano »
Pio IX condannò aspramente l'atto, con cui la Santa Sede
vide sottrarsi il secolare dominio su Roma. Si ritirò in Vaticano,
dichiarandosi "prigioniero" fino alla morte, non riconoscendo la
sovranità italiana su Roma. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la
questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, ma il Papa non accettò
la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò
il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata come "Questione
Romana", perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929.
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